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I medici che lavorano troppo “sprecano” le risorse pubbliche?

22/01/2018

I medici che lavorano troppo “sprecano” le risorse pubbliche?

Non è un segreto per nessuno che il SSN si trovi in una situazione di costante criticità, mancano i medici, mancano le strutture.

A farne le spese sono non solo i pazienti, ma anche i dipendenti dello stesso SSN, che si trovano spesso costretti a lavorare per molte ore in più rispetto all’attività ordinaria e a ridurre i turni di riposo, aumentando così il rischio di errore professionale con tutte le conseguenze che possono derivarne.

L’anno scorso un radiologo è deceduto per lo stress causato dal troppo lavoro e qualche mese fa è balzato alle cronache il caso di un primario di ginecologia che, al fine di ridurre le liste di attesa delle sue pazienti, fissava interventi chirurgici anche nel pomeriggio dei giorni feriali e di sabato.
Per questo “eccesso di zelo” era stato segnalato all’Azienda sanitaria di appartenenza da colleghi medici e infermieri, stanchi di essere coinvolti in queste turnazioni aggiuntive.
Da un lato, dunque, la volontà di sopperire in qualsiasi modo ai disservizi del sistema pubblico fornendo prestazioni in maniera veloce ed efficiente ai pazienti, dall’altro la vita di chi lavora nel SSN e ha diritto come qualsiasi lavoratore ad un riposo degno di esser chiamato tale.

Fra queste due opzioni non bisognerebbe dover scegliere, eppure in Italia sembra essere inevitabile.

In realtà le normative interne e comunitarie a tutela dei lavoratori del SSN esistono, ma si scontrano quotidianamente con la carenza di personale e strutture.

La situazione in generale è  grave, tanto che le Direttive comunitarie in materia di sicurezza e salute dei lavoratori (direttive 93/104; 2000/34; 2003/88), che fissavano un monte ore massimo settimanale e un minimo riposo fra un turno e l’altro, sono state derogate dalla normativa italiana nel 2008 solo per medici e infermieri.

Sembrerebbe assurdo, ma per sette anni le aziende del SSN, in piena legalità, hanno potuto richiedere ai propri dipendenti sacrifici in termini di orari e riposi, non ammissibili per il medesimo settore privato, né per tutte le altre categorie di lavoratori.
Solo su sollecitazione dell’Unione europea l’Italia ha posto fine il 25 novembre del 2015 a questa situazione incresciosa, eliminando di fatto le deroghe, senza però attuare alcun piano organizzativo.

Perciò la situazione è rimasta la medesima, anzi è peggiorata, se possibile, perché le Aziende sanitarie che non seguono quanto indicato dalle normative si espongono al rischio di cause da parte dei dipendenti e per evitarle, in alternativa, possono solo peggiorare, in termini di tempo e qualità, le prestazioni in favore degli utenti.

In tutti i casi le violazioni e i danni a carico dei lavoratori (e dei pazienti) sono evidenti, quindi è possibile attivarsi in via giudiziale per richiedere il risarcimento dei danni, allo Stato o all’Azienda a seconda delle situazione.

Rimane da chiedersi, retoricamente, come sempre in queste circostanze, se i Tribunali siano il luogo opportuno ove risolvere questi problemi, o se invece sarebbe preferibile che il legislatore intervenisse con una riforma volta ad efficientare il SSN a beneficio di pazienti e operatori sanitari.

 

Sara Saurini
Avvocato Consulcesi