“Prendete sul serio le mie preoccupazioni, e io prenderò sul serio i vostri consigli.” È con questa frase che la ricercatrice Sara Riggare riassume, sul British Medical Journal, l’essenza del rapporto tra medico e paziente: un equilibrio fatto di ascolto e fiducia reciproca. Affetta da morbo di Parkinson da quarant’anni, Riggare ha una familiarità approfondita con il linguaggio sanitario e con le dinamiche della medicina clinica.
Negli anni, ha visto trasformarsi il modello di cura da un approccio paternalistico a un processo decisionale condiviso, dove le preferenze del paziente dovrebbero avere un peso reale. “Quando la responsabilità dell’aderenza a un trattamento ricade completamente su chi lo riceve,” ricorda, “è fondamentale che le sue scelte siano rispettate e comprese.”
I rischi della mancanza di dialogo tra medico e paziente
Nonostante l’evoluzione teorica della medicina verso la condivisione delle decisioni, non sempre questo si traduce nella pratica clinica. Riggare racconta un episodio significativo: un medico le ha prescritto dei betabloccanti per prevenire rischi cardiaci, senza però fornirle spiegazioni convincenti sui benefici specifici per il suo caso.
“Gli ho chiesto se potessero aumentare la mia stanchezza,” ricorda, “e lui ha risposto che era un effetto collaterale comune, ma ha insistito sulla prescrizione, parlando addirittura di arresto cardiaco improvviso.” La paziente ha rifiutato il farmaco, non per sfiducia nella scienza, ma per mancanza di dialogo. “Il punto non è contestare la diagnosi o la terapia, ma chiedere un confronto, una spiegazione trasparente. Non siamo soggetti passivi,” sottolinea.
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La fiducia come terapia
Riggare crede che la fiducia sia la “valuta” principale dell’assistenza sanitaria. Ma non si costruisce in automatico: va guadagnata, allenata, ricambiata. “Se un medico non risponde alle mie domande, se ignora le mie ansie, sarà più difficile che io segua i suoi consigli,” afferma.
Il cambiamento parte da una nuova mentalità da parte degli operatori sanitari, che devono ricordarsi che il paziente può sempre decidere se seguire o meno la terapia. Coinvolgerlo, spiegare con chiarezza e ascoltare le sue perplessità non è solo un gesto umano: è un atto medico efficace. “Il rispetto per l’esperienza di chi vive la malattia ogni giorno è il primo passo per una cura che funzioni davvero.”
Una scienziata della propria salute
Sara Riggare non è soltanto una paziente esperta. È anche una ricercatrice che ha dedicato il proprio lavoro a trasformare l’esperienza soggettiva in strumento scientifico. Con una laurea magistrale e un dottorato di ricerca discusso presso la Radboud University nei Paesi Bassi, Riggare ha sviluppato la cosiddetta “scienza personale”: un metodo che permette a chi vive con una malattia cronica di raccogliere dati su di sé per migliorare il proprio percorso terapeutico.
Lavora presso il Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino e si occupa di automonitoraggio, del movimento del “Sé Quantificato” e di ricerca condotta direttamente dai pazienti. La sua voce, pubblicata sul British Medical Journal, non è solo una testimonianza personale, ma una proposta concreta per ripensare la medicina insieme a chi la vive ogni giorno.