Le liste d’attesa rappresentano da tempo una delle crisi più gravi del sistema sanitario italiano e coinvolgono milioni di cittadini che rinunciano a visite e terapie per tempi troppo lunghi, costi e difficoltà organizzative. I dati disponibili mostrano come una quota significativa delle prestazioni venga erogata oltre i limiti previsti, con un impatto diretto sulla qualità della vita e sulla fiducia nel Servizio sanitario nazionale. Questa situazione ha accentuato le disuguaglianze, perché chi dispone di maggiori risorse economiche riesce a bypassare l’attesa attraverso il canale privato, mentre chi non può permetterselo resta bloccato. Il dibattito pubblico si è quindi concentrato sull’equilibrio tra sanità pubblica e prestazioni a pagamento, trasformando le liste d’attesa in una vera questione politica e sociale.
La proposta del ministro e il nodo dell’intramoenia
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha avanzato l’ipotesi di una sospensione temporanea dell’attività libero-professionale intramoenia nei casi in cui si crei uno sbilanciamento evidente tra tempi di attesa nel pubblico e nel privato convenzionato. L’idea si basa sul principio che la libera professione resti un diritto per i medici, ma non possa comprimere il diritto dei cittadini ad accedere alle cure nel servizio pubblico.
La misura sarebbe selettiva e mirata ai contesti più critici, dove le prestazioni a pagamento risultano più rapide di mesi rispetto alle agende istituzionali. In questo quadro, il Governo punta a rafforzare strumenti di controllo e monitoraggio, come la piattaforma nazionale delle liste d’attesa, e a potenziare l’attività ambulatoriale anche in fasce orarie serali e festive.
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Le reazioni dei sindacati
Secondo Anaao e Cimo-Fesmed, l’intramoenia non può essere considerata la causa principale delle liste d’attesa. Di Silverio, leader di Anaao, sottolinea che l’attività libero-professionale è praticata solo dal 38% dei medici aventi diritto e si svolge al di fuori dell’orario di lavoro contrattuale, mentre le agende e i tempi delle prestazioni rimangono responsabilità delle aziende sanitarie. “I proventi derivati dall’intramoenia non finiscono nelle tasche dei medici, che percepiscono appena il 30% ancora da tassare, ma vanno a sostenere le casse delle strutture pubbliche”, evidenzia.
Di Silverio stigmatizza inoltre un “clima di caccia alle streghe”, dannoso per i rapporti tra istituzioni, medici e pazienti, e invita a non riversare sulle categorie professionali colpe che derivano da decenni di fallimenti politici nella gestione del Ssn. Guido Quici, presidente di Cimo-Fesmed, avverte che sospendere l’intramoenia sarebbe un boomerang devastante: “Senza questa attività, i medici avrebbero un ulteriore motivo per lasciare il servizio pubblico, aumentando carenze e liste d’attesa”. Secondo Quici, la soluzione reale resta investire sul personale, potenziare la sanità territoriale e riorganizzare i servizi, tutto il resto è “fumo negli occhi”.