Buono pasto negato? Ecco quando scatta il risarcimento

I presupposti giuridici, le prove da fornire e i casi in cui il servizio mensa non esclude il diritto al buono sostitutivo.

Sommario

  1. Le basi di legge: da Bruxelles ai contratti della Sanità
  2. La Cassazione fa chiarezza: il buono pasto è un diritto, non una concessione
  3. I presupposti per il riconoscimento dei buoni pasto
  4. La prescrizione del diritto: è decennale
  5. La ASL condannata: quasi 20mila euro ai sanitari

Tornano nuovamente a far rumore gli operatori sanitari del Comparto: questa volta è la Sezione Lavoro del Tribunale di Roma che, con la sentenza n. 12269/2025 pubblicata lo scorso 27 novembre, riconosce a 4 dipendenti di una ASL capitolina il diritto alla corresponsione dell’indennità sostitutiva del servizio mensa, per tutti i turni eccedenti le 6 ore di lavoro.

Liquidati a titolo di risarcimento ai sanitari ricorrenti (2 ostetriche e 2 infermieri  che congiuntamente hanno intrapreso il percorso giudiziario), l’importo complessivo di quasi 20 mila euro, oltre interessi legali e con il rimborso delle spese di lite sostenute per il processo.

Le basi di legge: da Bruxelles ai contratti della Sanità

La questione del riconoscimento dei buoni pasti affonda le sue origini nei principi adottati dall’Unione europea in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, successivamente declinata, a livello nazionale, dalle relative previsioni di recepimento, così come integrate dalle disposizioni contenute nei contratti collettivi applicabili al Comparto sanitario.

A tal proposito, vale innanzitutto ricordare l’art. 8 del D. Lgs. n. 66/2003 che attribuisce al lavoratore, che svolga la propria prestazione secondo un orario eccedente le 6 ore continuative, il diritto di poter godere di una pausa per il ristoro delle energie psico-fisiche e per l’eventuale consumazione del pasto.

Visto il richiamo alla contrattazione collettiva per la regolamentazione del diritto, viene quindi in rilievo il disposto di cui all’art. 29 del CCNL del 20/09/2001, come modificato dall’art. 4 del CCNL per il biennio economico 2008-2009 sottoscritto il 31 luglio 2009, secondo il quale: “Hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell’orario. Il pasto va consumato al di fuori dell’orario di lavoro. Il tempo impiegato per il consumo del pasto è rilevato con i normali mezzi di controllo dell’orario e non deve essere superiore a 30 minuti”.

Successivamente, la disciplina del servizio mensa è stata integrata dall’art. 27 del CCNL per il triennio 2016-2018 che, suo comma 4, stabilisce che: “Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto, secondo la disciplina di cui all’art. 29 del CCNL integrativo del 20/9/2001 e all’art. 4 del CCNL del 31/7/2009”.

La Cassazione fa chiarezza: il buono pasto è un diritto, non una concessione

In diverse occasioni la Corte di Cassazione, dovendosi occupare della questione del diritto al buono pasto nel pubblico impiego privatizzato, ha avuto modo di affermare che la discrezionalità amministrativa, tuttora opposta dalle Aziende per contestare le richieste dei loro dipendenti, non riguarda la concessione o meno del beneficio del servizio mensa, eventualmente usufruendo di modalità alternative (come, ad esempio, attribuendo il cd. “buono pasto), ma unicamente quale soluzione adottare per veder rispettato quanto previsto dal succitato art. 8 circa la tutela della pausa.

Si è quindi più volte ripetuto che “In tema di pubblico impiego privatizzato, l’attribuzione del buono pasto – in quanto agevolazione di carattere assistenziale che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l’attività lavorativa quando l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per la fruizione del beneficio – è condizionata all’effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, solo che il lavoratore, osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato, pervenendo in tal modo alla conclusione per cui la “particolare articolazione dell’orario di lavoro” di cui all’art. 29 del c.c.n.l. del Comparto sanità del 20 settembre 2001, comportano il diritto alla fruizione della pausa di lavoro, a prescindere che la stessa avvenga in fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto o che il pasto potesse essere consumato prima dell’inizio del turno” (Cass. ord. n. 25662/2023).

Ciò significa – secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale – che qualora il lavoratore svolga la propria prestazione con orario superiore alle 6 ore, a prescindere dall’articolazione su turni, deve poter godere di un intervallo per la pausa pranzo, con ciò dovendosi garantire il precipuo recupero delle energie psico-fisiche, attenuando gli effetti del lavoro monotono e ripetitivo.a

I presupposti per il riconoscimento dei buoni pasto

Sintetizzando sui presupposti, che debbono necessariamente ricorrere per poter legittimamente richiedere l’erogazione dei buoni pasto e, laddove possibile, il risarcimento del danno per quelli non ricevuti nel passato, si osserva come debba dimostrarsi, da un canto, l’esistenza di un orario di lavoro giornaliero eccedente le sei ore e, dall’altro, l’impossibilità di fruizione del servizio mensa o di un altro servizio sostitutivo presso la sede di lavoro.

Si aggiunga altresì che, oltre all’assenza del servizio mensa, assumono valore ai fini del riconoscimento del diritto anche quelle situazioni in cui, ancorchè istituito, vi sia la concreta impossibilità per il sanitario dipendente di accedervi per consumare il pasto al di fuori dell’orario di lavoro e nel rispetto del termine temporale di 30 minuti concesso.

A nulla rileverà, come talvolta si deve ancora leggere in qualche difesa, sostenere che il dipendente non avrebbe diritto al buono sostitutivo, potendo fruire della mensa prima dell'inizio del turno o dopo di esso, avendo la stessa giurisprudenza più volte ribadito che la consumazione del pasto è strettamente collegata alla pausa di lavoro e deve quindi avvenire nel corso della stessa, proprio per consentire il recupero delle energie psicofisiche spese durante il turno.

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La prescrizione del diritto: è decennale

Infine, deve rimarcarsi come sussista una certa confusione, soprattutto nei corridoi dei nostri nosocomi, circa il termine di prescrizione applicabile all’azione in questione, dovendosi ancora registrare l’errata convinzione che si tratti di 5 anni e non 10, come più volte stabilito dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.

Proprio su questo aspetto, ha dovuto indugiare il Giudice di Roma che, venendo sollecitato sul punto dalla difesa dell’Azienda sanitaria, ha correttamente respinto l’eccezione sollevata ai sensi dell’art. 2948 c.c.  (ossia il quinquennio), ricordando che il mancato riconoscimento del diritto alla pausa per il pranzo, e quindi anche al buono pasto sostitutivo, va ad incidere direttamente sul benessere del lavoratore.

Quindi, laddove tale diritto venga in qualche modo compresso, insorge la tutela risarcitoria ex art. 2087 c.c. a favore del lavoratore danneggiato, con conseguente applicazione del termine decennale che, in concreto, inizierà a decorrere dal momento in cui “matura il diritto al buono pasto, ossia dal giorno in cui viene resa la prestazione di durata superiore alle 6 ore senza pausa” (Trib. Roma Sez Lav. sent. n. 7853/2025).

Il Tribunale, volendo ulteriormente corroborare il suo giusto convincimento, ha quindi rievocato un recente arresto della Corte di Cassazione che, con ordinanza n. 20957/2025, ha testualmente affermato che "una volta accertato il diritto alla fruizione del buono pasto e l’inadempimento del datore di lavoro, il lavoratore può agire non per ottenere un importo economico a titolo retributivo, atteso che l’attribuzione dei buoni pasto ha carattere assistenziale e il buono pasto non è monetizzabile, ma il dipendente può agire per ottenere un ristoro economico a titolo di risarcimento del danno eventualmente parametrato al valore dei buoni pasto non fruiti”, da cui l’applicazione della prescrizione decennale.

La ASL condannata: quasi 20mila euro ai sanitari

Considerate incontestate le modalità lavorative dedotte dagli operatori sanitari ricorrenti ed applicata, per ogni buono pasto riconosciuto, la somma di euro 4,13 ciascuno, il Giudice ha quindi riconosciuto il loro diritto alla corresponsione dell’indennità sostitutiva del servizio mensa liquidando, a titolo di risarcimento, per i turni eccedenti le 6 ore lavorati, la somma complessiva di circa 20 mila euro, ripartita secondo i calcolo effettuati, con il favore delle spese legali sostenute per il giudizio.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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