Comorbilità pregresse non incidono sul danno al paziente: il medico risponde di tutto il risarcimento

La Corte di Cassazione, con un suo recente pronunciamento ritorna sull’annosa questione relativa all’accertamento del nesso di causalità, tra la condotta del medico ed il danno alla salute del paziente.

Sommario

  1. Il caso
  2. La questione della comorbilità del paziente
  3. La soluzione proposta dalla Cassazione

Ancora troppo spesso si registra, fra coloro che vivono nell’ambiente sanitario, il convincimento (come vedremo, improprio e non corretto) che le preesistenti patologie sofferte da un paziente interferiscano sull’accertamento della responsabilità del medico per cui, in tal casi, quest’ultimo non risponderebbe dell’eventuale decesso perché sarebbe comunque avvenuto per effetto delle menomazioni psicofisiche già esistenti.

La Corte di Cassazione è recentemente intervenuta proprio su questo aspetto, ricordando a tutti quali siano i principi regolatori di questa fattispecie, lanciando così un monito riguardo a quelle diffuse interpretazioni che, oltre a risultare non conformi al diritto, potrebbero risultare foriere di pericolose derive, con conseguenze risarcitorie davvero importanti per il malcapitato sanitario.

Il caso

La questione sottoposta al vaglio della Cassazione trae le mosse dalla richiesta risarcitoria presentata, in primo grado, dagli eredi di un paziente che, ricoverato presso una struttura sanitaria campana, con diagnosi d’ingresso di "ictus cerebrale edemiparesi lato dx, per lesione vascolare cerebrale a sinistra con infarcimento secondario", veniva dimesso dopo qualche giorno per essere nuovamente ricoverato presso altra struttura per essere sottoposto ad un percorso di riabilitazione motoria. Insorti nuovi episodi convulsivi, veniva quindi trasferito presso il reparto di rianimazione di un nosocomio territoriale, dove gli veniva diagnosticato l’insorgere di un nuovo ictus cerebrale all'emisfero di destra. Nonostante i trattamenti sanitari ricevuti, le condizioni cliniche del paziente peggioravano ulteriormente fino all’avvenuto decesso.

Respinta la domanda degli eredi in primo grado, la Corte di Appello riformava integramente la sentenza, ritenendo sussistere profili di responsabilità nella gestione del paziente durante il primo ricovero, con conseguente apprezzamento di concausalità efficiente e determinante sul secondo episodio ischemico che lo ha poi condotto al decesso.

La questione della comorbilità del paziente

L’azienda ospedaliera ha deciso quindi di procedere all’impugnativa della pronuncia a sé sfavorevole davanti alla Corte di Cassazione, sostanzialmente incentrando i suoi motivi di doglianza sul presupposto che, a suo dire, la presenza di fattori di comorbilità, indubitabilmente presenti nel caso in questione, avrebbero dovuto condurre ad un giudizio di irrilevanza causale della condotta dei suoi sanitari rispetto all’exitus finale.

In buona sostanza, veniva nuovamente riproposta la questione per cui, quando si accerti che il decesso è riferibile al concorso fra la condotta umana e le precarie condizioni di salute del paziente, l’incertezza sulle cause dell’illecito dovrebbero condurre ad una approfondita valutazione dei distinti fattori intervenuti (umano e naturale) al fine di individuare quale parte di danno sia effettivamente riferibile al sanitario, evitando così di addossare esclusivamente su quest’ultimo l’intero risarcimento.

La soluzione proposta dalla Cassazione

La Corte, ripercorrendo alcuni tratti della vicenda così come ricostruita nelle relazioni tecniche depositate nel corso dei giudizi di merito, ha invece riabbracciato con la sua ordinanza n. 31058/2023 i principi enunciati già con la sentenza n. 15991/2011, per cui il fatto che un paziente sia portatore, già prima dell’evento letale, di pregresse patologie non deve incidere sul nesso di causalità fra condotta sanitaria e danno.

Di contro, invece, le pregresse condizioni di salute possono sempre trovare ingresso nel giudizio del magistrato con riferimento alla liquidazione del danno, potendosi circoscrivere il risarcimento soltanto a quelle che, ai sensi dell’art. 1226 c.c., siano conseguenza diretta ed immediata della condotta illecita del sanitario.

Su tali premesse, la Corte ha quindi osservato che, nel caso sottoposto alla sua attenzione, la condotta  dei sanitari è stata certamente concausa dell’evento letale insieme alla situazione di comorbilità pregressa del paziente, ma di grado determinante dal momento che "l'omissione dei sanitari non si è inserita in un processo irreversibile che avrebbe comunque portato al secondo ictus e poi al decesso quattro mesi dopo, ma... l'interruzione del farmaco dicumarolico ha costituito una determinante concausa del secondo ictus e dell'exitus del paziente, giacché, se fosse stata tenuta la condotta alternativa corretta, il decesso non si sarebbe verificato secondo il "più probabile che non"".

Ciò significa che la pregressa situazione in cui può trovarsi il paziente viene ritenuta irrilevante ai fini della determinazione delle responsabilità per cui, quand’anche il medico abbia fornito, con la propria condotta illecita, un contributo minimale alla produzione del danno lamentato dal paziente, invero dovuto per la maggior parte al concorso di una pregressa problematica, il sanitario dovrà comunque risponderne per intero.

Queste considerazioni risultano applicabili anche quando risulti incerta la misura dell’apporto concausale della pregressa comorbilità del paziente, sull’evento letale. In questi casi la responsabilità di tutte le conseguenze individuate in base alla causalità giuridica sarà interamente imputata al sanitario. 

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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