La questione dei buoni pasto viene, spesso, collegata esclusivamente al personale sanitario ancora in servizio presso l’azienda di riferimento, concentrandosi la pretesa sul diritto del dipendente di ricevere l’attribuzione definitiva di questo beneficio, con eventuale riconoscimento di quelli non avuti in precedenza ovvero, laddove risulti impossibile l’adempimento in forma specifica, con l’erogazione del loro controvalore economico.
Parrebbero così rimanere fuori dal perimetro d’azione tutti coloro che, avendo già cessato il loro rapporto di lavoro con le rispettive aziende (per i più svariati motivi: pensionamento, dimissioni od altro), non hanno mai richiesto in costanza di servizio il riconoscimento del diritto al buono pasto, pur potendone vantare i requisiti.
Che fare in questi casi? È possibile ancora attivarsi?
L’inquadramento giuridico per i buoni pasto
Avendo riguardo al personale sanitario, il diritto ai buoni pasto trae fondamento dalla disciplina che regola l’organizzazione dell’orario di lavoro ed il relativo diritto al riposo, nonché dalle previsioni contenute nella contrattazione collettiva nazionale applicabili “ratione temporis” al caso concreto.
Viene quindi in rilievo, dapprima, la previsione dell’art. 4 della direttiva europea 2003/88, che di fatto richiede agli Stati membri di garantire che i lavoratori, impegnati su turni superiori a 6 ore, possano godere di un periodo di pausa, secondo le modalità temporali ed operative previste dalla contrattazione collettiva, dagli accordi fra le parti sociali ovvero, in difetto, dalla legislazione interna.
Questi principi sono stati quindi raccolti nell’art. 8 del D. Lgs. n. 66/2003, che attribuisce al dipendente, che svolga la propria prestazione lavorativa secondo i descritti criteri, di beneficiare di una pausa per il ristoro delle energie psico-fisiche e per l’eventuale consumazione del pasto.
Per il comparto viene poi in rilievo l'articoloall’art.29 del CCNL del 20.9.2001 successivamente modificato ed integrato, ai commi 1 e 4, dall’art. 4 del CCNL del 31 luglio 2009, secondo cui hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti effettivamente in servizio ed in relazione ad una particolare articolazione dell’orario di lavoro, declinando successivamente le modalità del servizio mensa, ovvero per l’erogazione dei cd. “buoni pasto sostitutivi”.
Per la dirigenza medica e sanitaria, la disciplina è invece contenuta nel CCNL dell'Area IV (ora Area Sanità), e specificamente nell'articolo 24 del CCNL del 10 febbraio 2004, come modificato dall'articolo 18 del CCNL del 6 maggio 2010. Le disposizioni per i dirigenti sono sostanzialmente analoghe a quelle previste per il personale del comparto: anche in questo caso, il diritto alla mensa o al buono pasto sostitutivo è ancorato alla particolare articolazione dell'orario di lavoro.
La giurisprudenza ha dunque applicato anche ai dirigenti medici lo stesso principio interpretativo elaborato per il personale del comparto, collegando il diritto al buono pasto al superamento delle sei ore di lavoro giornaliero, che dà diritto alla pausa pranzo ai sensi del D.Lgs. n. 66/2003.
Condizioni di riconoscimento dei Buoni Pasto
Il personale sanitario delle aziende pubbliche potrà quindi richiedere il riconoscimento dei buoni pasto sostitutivi del servizio mensa alla presenza dei seguenti condizioni:
- L'orario di lavoro giornaliero deve eccedere le sei ore
- Non sia possibile utilizzare il servizio mensa o di un altro servizio sostitutivo presso la sede di lavoro.
Va ricordato, a tal proposito, che la discrezionalità amministrativa rileva soltanto “a monte” della decisione di istituire il servizio mensa, oppure di garantire il beneficio alternativo.
La Corte di Cassazione, ancora in una sua recente pronuncia (Cass. n. 20621/2025), ha infatti ribadito che, una volta che l'Azienda Sanitaria ha deciso di garantire il diritto alla mensa con modalità sostitutive, il diritto spetta a tutti i dipendenti che operino in base a quella particolare articolazione dell’orario di lavoro cui il CCNL subordina il diritto alla pausa e quindi al servizio mensa o la fruizione dei buoni pasto sostitutivi.
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Natura dei Buoni Pasto
Il diritto al buono pasto ha, per giurisprudenza consolidata (Cass. n. 21440/2024), una natura prevalentemente assistenziale e non retributiva in senso stretto, perseguendo lo scopo specifico di garantire il giusto contemperamento delle esigenze di servizio con la salvaguardia del benessere psicofisico del lavoratore, soprattutto quando l'orario di lavoro esorbiti il limite delle sei ore e non sia presente un servizio mensa in sede.
Inadempimento dell’Azienda sui Buoni Pasto
La mancata erogazione dei buoni pasto da parte del datore di lavoro, in presenza dei presupposti previsti dalla normativa e dalla contrattazione collettiva, integra pertanto un inadempimento contrattuale da parte dell’ente medesimo ai sensi dell'art. 1218 c.c., generando a favore del dipendente il diritto a richiedere il risarcimento del danno.
In questi casi, la richiesta del lavoratore può essere diretta, non soltanto al riconoscimento pro futuro del diritto all’erogazione del beneficio, ma anche alla liquidazione non tanto del controvalore economico del buono non ricevuto durante il periodo di accertata inadempienza datoriale, ma ad ottenere il conseguente risarcimento del danno derivante da questo inadempimento.
La Corte di Cassazione ha anche di recente affermato (Cass. n. 20957/2025) che, qualora risulti accertato l’inadempimento, l’obbligazione iniziale (coincidente con la consegna del buono pasto al lavoratore che ne avesse diritto) si trasforma, in applicazione del principio della cd. “perpetuatio obligationis”, nell’obbligo datoriale di corrispondere al medesimo dipendente il relativo risarcimento per equivalente. Chiaramente, in questi casi, il parametro di riferimento utilizzato per il calcolo del controvalore monetario verrà coincidere con l’ammontare economico dei buoni pasto non percepiti.
Come chiarito dalla Suprema Corte, laddove si accertato il diritto alla fruizione del buono pasto con conseguente inadempienza datoriale, il lavoratore potrà dunque agire non per ottenere un importo economico a titolo retributivo, attesa la sua precipua natura assistenziale, quanto piuttosto il risarcimento del danno calcolato, eventualmente, sul valore dei buoni pasto non fruiti.
La cessazione del rapporto di lavoro
In caso di cessazione del rapporto di lavoro, l’ex dipendente non rimane allora privo di tutela su questo specifico aspetto, dal momento che la condotta inadempiente del datore di lavoro, coincidente con la mancata consegna dei buoni pasto a coloro che avevano maturato il relativo diritto, si è concretizzata durante il servizio, generando pertanto la possibilità per l’interessato, che non potrà più ricevere (per ovvi motivi) i buoni pasto a cui avrebbe dovuto avere accesso, il risarcimento per equivalente, come tale sempre attivabile laddove l’adempimento non risulti più possibile (Cass. n. 20621/2025).
Venendo in rilievo una tipica azione di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, e non di una richiesta di pagamento di emolumenti retributivi periodici, il termine di prescrizione non è quello quinquennale previsto dall'art. 2948, n. 4, c.c., bensì l'ordinario termine decennale previsto dall'art. 2946 c.c. che inizia a decorrere dall’inadempienza del datore di lavoro che non ha garantito il beneficio al dipendente.
In sintesi, il dipendente il cui rapporto di lavoro con un'azienda sanitaria è definitivamente cessato può ancora legittimamente invocare, al ricorrere dei requisiti previsti dalla normativa vigente così come interpretati dalla migliore giurisprudenza, il risarcimento del danno per la mancata erogazione dei buoni pasto durante il servizio, tenendo doverosamente in conto il rispetto del termine prescrizionale ordinario di dieci anni.