Infermiera aggredita in Pronto Soccorso: risarcita con 22mila euro dall’Azienda sanitaria

Infermiera aggredita in Pronto Soccorso risarcito con 22mila euro per mancata sicurezza sul lavoro. Azienda sanitaria condannata.

Sommario

  1. Il caso dell’infermiera aggredita in Pronto Soccorso
  2. L’obbligo del datore di lavoro di prevenzione rischi
  3. I motivi di condanna dell’Azienda sanitaria
  4. Il risarcimento per l’infermiera vittima di aggressione

Ogni giorno si accavallano le notizie di aggressioni verbali e fisiche al personale sanitario impegnato nei vari reparti, soprattutto di Pronto Soccorso, dei nosocomi dislocati nel territorio del nostro paese, raggiungendo soglie talmente elevate da rendere queste aree ormai notoriamente a rischio per l’incolumità psico-fisica di coloro che vi lavorano quotidianamente.

Vere e proprie trincee cittadine, dove gli esercenti la professione sanitarie si trovano ad affrontare, non soltanto le naturali difficoltà di una professione per sua stessa natura gravosa (e quindi rischiosa) in termini di responsabilità, con lo spauracchio continuo di venir denunciati, ma anche condotte violente di una parte di utenza, esacerbata dalle ore di attesa imputabili esclusivamente all’organizzazione del lavoro.

Il caso dell’infermiera aggredita in Pronto Soccorso

Emblematica la vicenda che ha visto, purtroppo, coinvolta un’infermiera che, in regolare servizio presso il P.S. di un nosocomio marchigiano, veniva improvvisamente aggredita, verso le 7 di sera, da una persona da lungo tempo in attesa di essere ricevuta per le cure del caso, riportando lesioni da cui scaturiva, nel tempo, l’instaurarsi di una conclamata situazione di stress post traumatico, con accertati postumi invalidanti.

Respinta in primo grado la domanda di risarcimento, spiegata dalla lavoratrice nei confronti dell’Azienda sanitaria competente sul presupposto della mancata adozione, ai sensi dell’art. 2087 c.c., di adeguate misure di sicurezza atte a prevenire possibili episodi di aggressione, l’infermiera impugnava la decisione sfavorevole innanzi alla Corte di Appello di Ancona che, con sentenza n. 52/2025, ribaltava completamente l’esito del giudizio, riconoscendo la responsabilità della datrice di lavoro, condannata al risarcimento del danno occorso alla sua dipendente.

L’infermiera dipendente aveva, infatti, sostenuto fra i suoi motivi di gravame che il Tribunale non avesse adeguatamente apprezzato le risultanze probatorie raccolte durante l’istruttoria, soprattutto nella parte in cui era emerso dai testimoni escussi che il P.S. era collocato in una struttura distinta rispetto all’ospedale, senza alcun servizio di guardiania, mentre il servizio di vigilanza, ubicato all’ingresso principale, risultava attivo soltanto dalle ore 20,00 alle ore 6,00 del mattino seguente.

L’obbligo del datore di lavoro di prevenzione rischi

La fattispecie in questione rientra, a buon diritto, nell’ambito di applicazione dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro l’adozione non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che di fatto rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche tutte le altre misure tecniche che potrebbero risultare necessarie rispetto alla specificità dei rischi connessi all’ambiente di lavoro nella sua concretezza, ancorchè non previsti nel dettaglio dalla normativa antinfortunistica.

Ciò posto, la Corte di Appello di Ancona ha voluto però ricordare come, in ogni caso, la responsabilità del datore debba pur sempre correlarsi alla violazione di una condotta richiesta da un obbligo di legge, ovvero suggerita dall’evoluzione della tecnica adattate al caso concreto, non essendo ammissibile un criterio di imputazione oggettivo.

C’è da dire a tal proposito che la parte datoriale risulta onerata non soltanto della fase attuativa delle misure di sicurezza individuate, ma soprattutto di quella pervia di valutazione dei rischi potenzialmente connessi all’attività esercitata, ricomprendendo in questi sia quanto afferente le attrezzature, i macchinari ed  i servizi forniti al dipendente per la lavorazione, sia ciò che inerisce più latamente l’ambiente stesso, inclusi i fattori esterni correlati all’azione di terzi.

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I motivi di condanna dell’Azienda sanitaria

Calati questi principi giuridici, siccome interpretati della costante giurisprudenza di legittimità, all’aggressione patita dall’infermiera, la Corte di Appello ha quindi ribaltato l’esito del giudizio di primo grado, riconoscendo la responsabilità (seppure indiretta) della azienda sanitaria per non aver predisposto quelle misure di sicurezza, esigibili secondo gli standard applicabili al momento dei fatti, idonee ad evitare il verificarsi dell’evento.

Entrando nello specifico, la Corte ha dapprima ricordato, per avvalorare l’importanza della questione (e quindi della conoscibilità dei rischi connessi al lavoro degli operatori sanitari), il contenuto della raccomandazione n. 8 del novembre 2007, con cui il Ministero della Salute aveva già  posto in risalto la necessità di approntare un adeguato sistema di prevenzione dai rischi di violenza a danno di questa categoria di lavoratori, invitando le Direzioni sanitarie a provvedere con massima priorità all’adozione di iniziative e programmi mirati a prevenire atti di violenza e/o attenuarne le conseguenze negative, fondendo alcune indicazioni operative in tal senso.

Lampante poi l’indicazione ministeriale laddove sottolinea, con riferimento al rischio aggressioni, che “i medici, gli infermieri e gli operatori socio sanitari sono a rischio più alto in quanto sono a contatto diretto con il paziente e devono gestire rapporti caratterizzati da una condizione di forte emotività sia da parte del paziente stesso che dei familiari, che si trovano in uno stato di vulnerabilità, frustrazione o perdita di controllo, specialmente se sotto l'effetto di alcol o droga”.

Da ciò, la Corte ha fatto quindi discendere che, con riferimento ai “servizi di emergenza-urgenza”, la A.S.U.R. Marche fosse pienamente a conoscenza dei pericoli potenziali e, pertanto, responsabile non avendo fornito prova di realizzato e messo in esecuzione un programma protettivo conforme a quello previsto dalla raccomandazione ministeriale, né tantomeno una propria procedura alternativa, altrettanto protettiva, per prevenire atti di violenza in danno degli operatori.

Censurata nello specifico la presenza di un servizio di vigilanza ubicato in una posizione molto distante dal  Pronto Soccorso e con orario soltanto notturno, verosimilmente dedicato più alla custodia dei beni aziendali che alla protezione del personale, si rimarcava altresì l’assenza di piani formativi aziendali mirati ad addestrare il personale sulle procedure da adottare per prevenire episodi di violenza.

Per quanto concerne la prevedibilità di tali episodi, la Corte ha osservato come i rischi fossero ampiamente noti, anche in ragione di alcuni pregressi confronti sindacali sul tema.

Da ultimo, poi, la censura rispetto alle carenze formative del personale sanitario presente ai fatti che, se istruito adeguatamente su procedure di gestione del rischio, avrebbe verosimilmente potuto attuare, già in via preventiva, iniziative utili ad evitare il progredire della situazione, poi degenerata nell’aggressione, ovvero a ridurne al minimo le conseguenze per l’infermiera.

Il risarcimento per l’infermiera vittima di aggressione

Affermata, pertanto, la responsabilità ex art. 2087 c.c. dell’Azienda sanitaria convenuta, la Corte l’ha quindi condannata al risarcimento di tutti i danni fisici e non patiti per lo stress post traumatico conseguito all’aggressione, così quantificato in oltre 22 mila euro, oltre al rimborso integrale delle spese legali sostenute per i due gradi di giudizio affrontati.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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