Durante l'ecografia di controllo alla signora A viene diagnosticata una cisti ovarica sinistra, da rimuovere chirurgicamente: l'intervento viene programmato presso l'Istituto clinico B per essere eseguito in laparoscopia dal dottor C (primo operatore) e dal dottor D (aiuto chirurgo).
Per la signora A si trattava del primo intervento chirurgico cui si sottoponeva, non avendo mai avuto altri problemi di salute, nel corso della vita, che richiedessero approcci invasivi.
La signora A, nel giorno programmato, viene sottoposta all'intervento, che tuttavia viene convertito in laparotomia con l'impiego di pezze laparotomiche, nonostante si fosse inizialmente preferito un approccio laparoscopico.
Quali regole sono state violate? La responsabilità sanitaria tra normativa e giurisprudenza
La normativa sulla responsabilità sanitaria, negli anni, è stata prima assente e poi mutevole, spesso e volentieri tendente a tutelare il medico dal rischio di essere chiamato in giudizio per malasanità: quando non esisteva ancora una legge sulla colpa medica, la giurisprudenza tendeva a ritenere che a seguito del ricovero del paziente presso una struttura sanitaria pubblica non nascesse alcun rapporto di natura contrattuale né con la struttura né con il medico che lo prendeva in cura, con conseguente totale assenza di responsabilità in caso di errore sanitario.
Negli anni la tendenza è cambiata e la giurisprudenza ha iniziato a individuare una corresponsabilità tra la struttura sanitaria e il medico che vi esercitava, con l’esclusione del caso in cui il sanitario avesse commesso l’errore con dolo, cioè con la coscienza e la volontà di commetterlo.
Successivamente nel nostro ordinamento giuridico ha fatto breccia la teoria tedesca del cosiddetto contatto sociale qualificato, in virtù della quale l'accettazione del paziente nell'ospedale, ai fini del ricovero o di una semplice visita, comporta la conclusione di un vero e proprio contratto tra il paziente e l'ente ospedaliero, con conseguente duplice responsabilità per l’ospedale e per gli operatori; secondo questa teoria, le responsabilità vengono suddivise come segue:
- La struttura sanitaria risponde dell’eventuale errore medico secondo i criteri della responsabilità contrattuale,
- Il professionista sanitario, invece, risponde in via extracontrattuale o aquiliana, per aver cagionato al paziente un danno ingiusto a seguito della commissione, con dolo o colpa, di un fatto illecito.
Viene spontaneo domandarsi quale sia la differenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale e se tale differenza sia importante o meno per un medico accusato di malpractice.
Le differenze più importanti riguardano la fonte da cui scaturisce per il medico l'obbligo di risarcire il danno, cioè da un contratto (nel caso di responsabilità contrattuale) ovvero da un fatto illecito o da un atto che provoca un danno ingiusto (nel caso di responsabilità extracontrattuale), ed è rilevante sotto il profilo della prescrizione e dell'onere della prova in caso di processo.
Nell’ipotesi di responsabilità contrattuale l’eventuale azione di risarcimento esperibile dal paziente nei confronti della struttura sanitaria si prescrive in dieci anni, l’azienda sanitaria viene ritenuta presunta responsabile fino a prova contraria, ed ha l’onere di provare in giudizio la propria innocenza.
Nel caso, invece, di responsabilità extracontrattuale, il paziente dovrà esercitare l’azione risarcitoria entro cinque anni, salvo che il fatto costituisca reato; sul paziente danneggiato, inoltre, grava l’onere di dimostrare che quello specifico danno subito sia effettivamente riconducibile a un preciso errore commesso dal medico.
Negli anni l’aumento delle controversie indusse il Legislatore ad emanare il decreto Balduzzi, la prima legge in materia di responsabilità medica: secondo il decreto Balduzzi il medico che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve, rimanendo comunque fermo il principio della responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile.
La legge Balduzzi è rimasta in vigore per un breve periodo di tempo, dal 2012 al 2017: dopo solo cinque anni dalla sua emanazione fu sostituita dalla legge 8 marzo 2017 n. 24, la cosiddetta legge Gelli-Bianco, che ha introdotto nel codice penale l’art. 590 sexies, avente ad oggetto la responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario.
Per quanto concerne il profilo civilistico, legato prettamente al ristoro del danno subito dal paziente in termini monetari, secondo la legge Gelli Bianco la struttura sanitaria risponde delle condotte dolose o colpose dei professionisti sanitari di cui si avvale, anche nell'ipotesi in cui tali soggetti siano stati scelti dal paziente, finanche nell’ipotesi in cui questi medici non siano dipendenti della struttura stessa.
La responsabilità della struttura sanitaria, secondo la legge Gelli-Bianco, è di tipo contrattuale: come già spiegato in precedenza, sarà la struttura sanitaria a dover dimostrare l’assenza di colpa nell’esecuzione della prestazione sanitaria, incombendo su di lei il cosiddetto onere della prova del contrario.
La responsabilità civile del medico, anche con la legge Gelli Bianco, rimane di natura extracontrattuale, con onere della prova gravante sul paziente, che dovrà perciò dimostrare che l'evento lamentato sia una diretta conseguenza della condotta del medico
Sotto il profilo penalistico, va detto che la legge Gelli Bianco è attualmente sotto la lente d’ingrandimento del Parlamento, tant'è che il Minisitro della Giustizia nel febbraio scorso ha istituito la Commissione per lo studio e l'approfondimento delle problematiche relative alla colpa professionale medica, con lo scopo di riformare l'attuale art. 590 sexies c.p.
In attesa della riforma, l'attuale testo dell'art. 590 sexies del codice penale prevede che se un paziente muore o subisce delle lesioni in conseguenza dell’esercizio di una professione sanitaria, il medico sarà chiamato a rispondere di tali conseguenze solo in caso di colpa, e sarà soggetto a una pena che può arrivare, nei casi più gravi, a cinque anni di reclusione. Se la morte o le lesioni derivano da imperizia, tuttavia, la punibilità del medico è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida ovvero, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle suddette linee guida siano adeguate alla specificità del caso concreto.
La raccomandazione n. 2/2008 del Ministero della Salute, applicabile al caso di specie, assegna in effetti al personale infermieristico la competenza ad effettuare il conteggio delle garze, mentre al chirurgo spetta il compito di verificare che il conteggio sia eseguito dal personale preposto e che il totale di garze utilizzate e rimanenti corrisponda a quelle ricevute prima e durante l'intervento. Secondo le linee guida, in caso di difformità nel conteggio delle garze occorre ripetere il conteggio ed ispezionare l'area circostante prima di procedere a radiografia intraoperatoria.
A seguito dell'intervento la paziente lamentava l'insorgenza di sintomi significativi quali:
- dolori addominali di intensità crescente,
- sudori freddi,
- nausea,
- dissenteria,
- significativa perdita di peso.
Per il trattamento dei suddetti sintomi alla signora A viene prescritto di prendere qualcosa per il mal di pancia.
Ciononostante, la sintomatologia persiste e dopo un mese e mezzo dall'intervento la paziente, disperata, si reca al Pronto Soccorso dell'ospedale locale, dove i sanitari, dopo averla sottoposta a un'ecografia addominale e a una TAC, accertano la presenza in sede pelvica paramediana sinistra rispetto all'utero ed in parete posteriormente di una formazione ipodensa di 6 cm.
Venivano informati il dottor C e il dottor D, che il giorno seguente sottoponevano la signora A a un nuovo intervento chirurgico di laparotomia per la rimozione del corpo estraneo, nonché per l'esecuzione di una colostomia protettiva sul sigma con il confezionamento di un ano preternaturale.
Il corpo estraneo rinvenuto all'interno dell'addome della signora si rivelava essere una pezza laparotomica “dimenticata” nel corso dell'intervento di laparotomia di poco più di un mese e mezzo addietro.
Dopo quattro mesi, la signora A ha dovuto subire un altro intervento di ricanalizzazione intestinale, previa rimozione dell'ano preternaturale, quale conseguenza della “dimenticanza” della garza nel suo addome di pochi mesi prima.
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L’esito del processo: assoluzione in primo grado, condanna in appello per colpa grave
Il giudice di primo grado ha assolto i medici, ritenendo che la prova del nesso causale tra la “dimenticanza” della garza e le lesioni subite dalla signora A fosse carente, poiché i medici non erano obbligati a ricontare le garze e comunque i sintomi della paziente e il breve lasso di tempo tra l'intervento e la loro insorgenza, unitamente all'assenza di fenomeni suppurativi intraperitoneali con peritonite o peritonismo, rendevano plausibile la patologia viscerale colica e improbabile la diagnosi di dimenticanza di una garza, che comunque non avrebbe potuto causare (come invece accaduto) la perforazione del sigma.
La Corte d'appello, invece, ha completamente ribaltato il giudizio di primo grado, condannando il dottor C quale primo operatore e il dottor D quale aiuto, alla pena di mesi sei di reclusione (pena sospesa), per avere omesso di contare le garze utilizzate per l'intervento sulla signora A, con colpa grave consistita in imprudenza, imperizia e negligenza, rendendo necessari addirittura ulteriori tre interventi chirurgici per la rimozione della garza, la colostomia e la riconversione della stessa, causando così lesioni gravissime all'intestino della vittima con indebolimento permanente della parete addominale.
Secondo la Corte d'appello, al di là della previsione delle linee guida del 2018, al fine di ritenere sussistente il nesso causale tra il danno subito dalla signora A e le lesioni subite (che imposero due nuovi interventi chirurgici invasivi) è sufficiente l'aver lasciato la garza nell'addome: la rimozione della pezza laparotomica comportò delle conseguenze lesive sulla signora A, consistite quanto meno nella necessità di sottoporsi a due ulteriori interventi chirurgici, peraltro entrambi particolarmente invasivi.
La signora A, in particolare, ha riportato una cicatrice di 7 cm nella fossa iliaca, una di 25 cm nella mediana xifo-pubica e tre cicatrici di 1 cm sul collo. Se la garza non fosse stata dimenticata, la signora A non avrebbe subito questo tipo di lesioni.
Il giudizio d'appello è stato confermato dalla Corte di Cassazione, che ha rigettato tutti i motivi di ricorso proposti dai due medici ritenendoli inammissibili e infondati, condannando i due chirurghi ginecologici al pagamento delle spese processuali.