Il segreto dei 117 anni: cosa ci insegna il genoma della donna più longeva del mondo

Dallo studio pubblicato su Nature emergono nuove prospettive sull’invecchiamento umano grazie al caso di Maria Branyas Morera. Varianti genetiche rare, un “orologio epigenetico” più lento, un ambiente sano e una vita moderata sembrano aver agito in sinergia nel garantire la sua longevità eccezionale. Gli esperti avvertono però: i geni aiutano, ma lo stile di vita e le condizioni sociali restano decisivi.

Sommario

  1. Fattori genetici: il “lotto” con cui si nasce
  2. Epigenetica e “clocks” molecolari
  3. Ambiente ed esposizioni: il contesto conta (e moltissimo)
  4. Stile di vita: le abitudini che fanno la differenza
  5. Limiti, cautela e prospettive future
  6. Conclusione: quale lezione trarre?

Il recente approfondimento su Nature, intitolato “She lived to 117: what her genes and lifestyle tell us about longevity”, prende spunto dalla figura di Maria Branyas Morera, la persona più anziana del mondo al momento della sua morte (19 agosto 2024) all’età di 117 anni, per esplorare come geni, ambiente e scelte individuali possano interagire nel determinare una longevità estrema. Gli scienziati hanno avuto accesso al profilo genetico, metabolico e alle abitudini personali di Maria nel corso della sua vita, offrendo così un’occasione rara per indagare i fattori che contribuiscono a vivere un’età eccezionale. Ma cosa emerge da questo caso — e cosa possiamo generalizzare con cautela a livello più ampio?

Fattori genetici: il “lotto” con cui si nasce

Uno dei temi centrali nello studio dell’invecchiamento è la presenza di varianti genetiche che possono influenzare il mantenimento del sistema cellulare, la riparazione del DNA, la risposta allo stress ossidativo e altri meccanismi chiave. Le persone che vivono super-cento anni sembrano spesso portare con sé “mutazioni protettive” o l’assenza di varianti deleterie comuni.

Nel caso di Maria Branyas Morera, i ricercatori hanno esaminato il suo DNA alla ricerca di varianti rare che potrebbero aver contribuito a proteggere contro malattie legate all’età, come quelle cardiovascolari o neurodegenerative.

Tuttavia, va sottolineato che le varianti genetiche possono aiutare, ma da sole non sono determinanti: molti soggetti con profili genetici “favoriti” non raggiungono età eccezionali, mentre altri con genetica meno “ottima” superano i 100 anni grazie all’ambiente e allo stile di vita.

Epigenetica e “clocks” molecolari

Oltre al DNA “statico”, interven­gono i processi epigenetici — modifiche chimiche che regolano l’attività dei geni nel tempo. Questi cambiamenti accumulati (metilazione del DNA, marcatori epigenetici) costituiscono ciò che si chiama “orologi molecolari” dell’invecchiamento, che cercano di quantificare l’età biologica effettiva di un individuo rispetto all’età cronologica.

Studi su centenari e supercentenari suggeriscono che chi invecchia “bene” possiede un orologio epigenetico più “lento”, ossia accumula meno danni epigenetici rispetto agli individui medi della stessa età.

Ambiente ed esposizioni: il contesto conta (e moltissimo)

Anche disponendo di una genetica favorevole, il contesto nel quale si vive può amplificare o mitigare i rischi. Tra i fattori ambientali rilevanti:

  • Qualità dell’aria e inquinanti: l’esposizione cronica a inquinanti atmosferici, metalli pesanti, particolato fine (PM2,5, PM10) favorisce stress ossidativo, infiammazione cronica e malattie cardiovascolari.
  • Dieta e disponibilità alimentare: uno degli elementi emersi per Maria è il consumo regolare di yogurt (fermenti lattici) e una dieta varia che probabilmente combinava elementi salutari, nutrienti e moderazione.
  • Accesso a cure sanitarie e prevenzione: vivere in contesti con sistemi sanitari efficienti, diagnosi precoce, screening e trattamenti per condizioni croniche è un vantaggio cruciale.
  • Condizioni sociali e stress psicosociale: isolamento sociale, stress cronico, traumi o condizioni socioeconomiche svantaggiate possono accelerare l’invecchiamento biologico tramite meccanismi ormonali, immunitari e infiammatori.
  • Attività fisica, movimento e stimoli cognitivi: l’esercizio moderato e regolare, la stimolazione intellettuale e l’interazione sociale sono fattori protettivi ben documentati in epidemiologia dell’età.

Un aspetto interessante evidenziato dallo studio è che Maria ha vissuto buona parte della sua vita in contesti europei con condizioni sanitarie relativamente avanzate e stabilità sociale, il che può aver contribuito al suo “premium ambientale”.

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Stile di vita: le abitudini che fanno la differenza

Dal punto di vista delle scelte individuali, ecco i fattori che emergono con maggiore forza:

  1. Alimentazione equilibrata e moderazione
    Non sono emersi elementi radicali come digiuno estremo o superdiete: piuttosto, un regime alimentare vario, con presenza di alimenti fermentati (yogurt), porzioni controllate e probabilmente minor consumo di cibi ultra-processati sono coerenti con la letteratura sugli anziani longevi.
  2. Mantenimento di massa muscolare e attività motoria
    Anche se non si conosce il dettaglio dell’attività fisica di Maria negli anni giovanili, è ragionevole ipotizzare che una vita con movimento regolare (camminate, attività quotidiane) abbia avuto un contributo protettivo.
  3. Stabilità psichica, resilienza, relazioni sociali
    La dimensione psicologica è cruciale: adattamento allo stress, gestione emotiva, reti sociali e senso di scopo sono componenti spesso presenti nei profili dei centenari studiati in vari contesti nel mondo.
  4. Curiosità, stimolazione mentale
    L’uso continuato del cervello, apprendimento, hobby cognitivi sono da tempo considerati “farmaci mentali” contro il declino cognitivo, anche se il legame diretto con la superlongevità è più difficile da stabilire.
  5. Moderazione nel consumo (se si considera alcol, fumo, ecc.)
    Nei casi documentati di ultra-longevità, raramente emergono stili di vita estremi con consumo rilevante di fumo o alcol. Più spesso si nota un comportamento prudente su questi fronti (ma attenzione: questo dato è soggetto a bias di selezione e memoria).

Limiti, cautela e prospettive future

È fondamentale sottolineare che un singolo caso — per quanto straordinario — non fornisce prove definitive. Ci sono molte incognite:

  • Effetto “survivor bias”: chi arriva agli 117 anni è già un sottoinsieme estremo della popolazione, cioè chi ha passato infiniti rischi nel corso del cammino della vita.
  • Eterogeneità genetica e ambientale: le condizioni di vita, le mutazioni somatiche accumulate, le esposizioni individuali sono differenti da persona a persona.
  • Ruolo dell’effetto casuale (“luck”): anche elementi stocastici (mutazioni spontanee meno dannose, eventi soggettivi casuali) possono aver giocato un ruolo.
  • Bisogno di studi su coorti più vaste: solo analizzando molti centenari e supercentenari con profili multi-omici (genomica, trascrittomica, metabolomica) potremo scoprire modelli ricorrenti.
  • Interazione complessa gene × ambiente × stile di vita: non si tratta di “geni buoni” + “buone abitudini” semplici, ma piuttosto di una rete complessa e dinamica che evolve nel tempo.

In futuro, tecniche avanzate di intelligenza artificiale sul big data biologico, studi longitudinali di coorti molto anziane e nuovi biomarcatori dell’invecchiamento (dalle alterazioni del microbioma, ai segnali metabolici, ai meccanismi mitocondriali) potrebbero illuminare meglio quali combinazioni permettono di attivare percorsi di longevità estrema.

Conclusione: quale lezione trarre?

La longevità estrema fino a 117 anni non è un traguardo “programmabile” con certezza né una ricetta magica: è piuttosto il risultato di un’equilibrata alchimia tra genetica, ambiente favorevole e uno stile di vita che minimizza i danni nel corso degli anni.

In altre parole:

  • I geni possono offrire una base potenzialmente protettiva, ma da soli non bastano.
  • L’ambiente (qualità dell’aria, sanità, condizione sociale) modula fortemente il rischio accumulato.
  • Le scelte individuali — alimentazione, attività fisica, stimolazione mentale, reti sociali — sono il “tessuto vivente” che può attenuare o accelerare i danni.

 

Di: Cristina Saja, giornalista e avvocato

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