L’inatteso effetto del vaccino anti-Covid: aumenta la sopravvivenza dei pazienti oncologici

Una serie di studi dell’MD Anderson Cancer Center e dell’Università della Florida mostra che i malati di tumore al polmone e di melanoma vaccinati contro il Covid entro 100 giorni dall’inizio dell’immunoterapia vivono significativamente più a lungo rispetto ai non vaccinati.

Sommario

  1. Come il vaccino amplifica l’immunoterapia: l’attivazione delle cellule T e il ruolo dell’interferone
  2. L’importanza del tempo e la differenza con i vaccini tradizionali
  3. Dalla pandemia all’oncologia: il vero valore della tecnologia mRNA e le sfide del presente

Una delle scoperte più sorprendenti presentate di recente nel campo dell’oncologia riguarda un effetto inatteso del vaccino anti-Covid a mRNA. Secondo uno studio condotto dall’MD Anderson Cancer Center di Houston e presentato all’ESMO 2025, i pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule e con melanoma che hanno ricevuto un vaccino mRNA contro il Covid entro 100 giorni dall’inizio dell’immunoterapia mostrano una sopravvivenza significativamente superiore rispetto ai non vaccinati.

Nei pazienti con tumore al polmone la sopravvivenza a tre anni è passata dal 30,6% al 55,8%, mentre nel melanoma è cresciuta dal 44,1% al 67,5%. Gli stessi trend positivi emergono anche dalle analisi retrospettive di oltre mille cartelle cliniche effettuate all’Università della Florida. I ricercatori sottolineano che, pur non potendo escludere del tutto un contributo indiretto (come la riduzione delle morti per Covid), la solidità dei dati e la coerenza con i meccanismi biologici osservati indicano una probabile sinergia tra vaccinazione e immunoterapia. Una notizia che apre scenari completamente nuovi sulla gestione dei tumori trattati con checkpoint inibitori.

Come il vaccino amplifica l’immunoterapia: l’attivazione delle cellule T e il ruolo dell’interferone

Gli scienziati spiegano che l’effetto osservato non dipende dalla protezione contro il Covid, bensì dall’attivazione immunitaria “di fondo” indotta dal vaccino. Gli inibitori dei checkpoint immunitari, usati per il melanoma e alcuni tumori polmonari, funzionano rimuovendo i “freni” che impediscono al sistema immunitario di attaccare le cellule tumorali, ma richiedono che le cellule T siano già attive e presenti nel microambiente tumorale.

I vaccini a mRNA sembrano proprio stimolare questa condizione: negli studi sui topi, e poi nelle analisi sui pazienti, si osserva una maggiore infiltrazione di cellule T, un aumento dell’attività immunitaria mediata da interferone di tipo I e una più elevata espressione di PD-L1 nel tumore, un fenomeno associato a una migliore risposta ai farmaci anti-PD-1/PD-L1.

A sorprendere è anche il fatto che l’effetto risulti più pronunciato nei pazienti che in teoria avrebbero dovuto rispondere peggio, come quelli con tumori “freddi” o con bassa espressione di PD-L1. Secondo gli oncologi coinvolti, questa sinergia potrebbe rappresentare un punto di svolta per ampliare l’efficacia dell’immunoterapia a categorie di pazienti finora considerati poco responsivi.

L’importanza del tempo e la differenza con i vaccini tradizionali

La finestra temporale in cui il vaccino viene somministrato si è rivelata decisiva. I dati indicano infatti che il beneficio massimo si ottiene quando la vaccinazione avviene entro 30 giorni prima o dopo l’inizio dell’immunoterapia, anche se effetti positivi persistono fino ai 100 giorni. Superata questa soglia, la sinergia si riduce sensibilmente. Un altro elemento rilevante è che il fenomeno è specifico dei vaccini a mRNA: né il vaccino antinfluenzale né altri vaccini basati su tecnologie tradizionali mostrano alcuna correlazione con un miglioramento della sopravvivenza.

Questo suggerisce che non si tratti di una semplice attivazione immunitaria generica, ma di un meccanismo specifico legato alla modalità con cui il vaccino mRNA stimola la risposta delle cellule T. I ricercatori osservano inoltre che i benefici sono documentati sia nei tumori in stadio III sia negli stadi IV, e rimangono robusti anche dopo aver controllato variabili come età, comorbilità e performance status. Pur trattandosi di risultati retrospettivi, la loro coerenza suggerisce che l’integrazione dei vaccini mRNA nei protocolli oncologici potrebbe diventare una pratica clinica, una volta completati i trial prospettici già in corso.

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Dalla pandemia all’oncologia: il vero valore della tecnologia mRNA e le sfide del presente

I vaccini a mRNA, sviluppati rapidamente durante la pandemia di Covid, si sono basati su una tecnologia che affonda le sue radici in decenni di ricerca. La loro forza risiede nella capacità di trasportare istruzioni genetiche direttamente nelle cellule, protette da nanoparticelle lipidiche che garantiscono una potente attivazione immunitaria.

È questa caratteristica a renderli candidati ideali non solo per prevenire malattie infettive, ma anche come coadiuvanti dell’immunoterapia oncologica. Tuttavia, mentre emergono risultati clinici incoraggianti, la ricerca nell’ambito degli mRNA sta incontrando ostacoli politici e finanziari negli Stati Uniti: l’amministrazione Trump ha tagliato oltre 500 milioni di dollari ai progetti dedicati a questa tecnologia e figure istituzionali, come il segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr., hanno contribuito a diffondere un clima di diffidenza verso i vaccini, nonostante l’evidenza scientifica dimostri la loro efficacia. La comunità oncologica teme che questi ostacoli possano rallentare una potenziale rivoluzione terapeutica. Se gli studi clinici confermeranno i risultati osservati finora, l’mRNA potrebbe diventare un alleato fondamentale per potenziare terapie già esistenti e aprire la strada a protocolli combinati innovativi, unendo vaccini stimolatori e vaccini personalizzati contro il cancro.

 

Di: Arnaldo Iodice, giornalista

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