Negli ultimi dodici anni, in Italia hanno chiuso 115 Pronto Soccorso (PS). Il dato, diffuso in un recente report a cura dell’ALTEMS – Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica, segnala una tendenza allarmante che coinvolge in modo trasversale tutte le Regioni, seppur con intensità diverse. La riduzione dei punti di accesso all’emergenza-urgenza ha profonde implicazioni sia per l’equità di accesso alle cure, sia per la tenuta del sistema sanitario nazionale nel suo complesso.
Un'analisi quantitativa: 115 PS chiusi tra il 2010 e il 2022
L’indagine ALTEMS, condotta su base nazionale, ha analizzato l’evoluzione della rete dei Pronto Soccorso dal 2010 al 2022. In questo arco temporale:
- Il numero totale di PS attivi è sceso da circa 638 a 523, con una perdita netta di 115 strutture.
- La maggior parte delle chiusure ha interessato PS di piccoli ospedali, spesso localizzati in aree interne o periferiche.
- In parallelo, si è osservato un aumento della concentrazione dei pazienti in strutture medio-grandi, con conseguente sovraffollamento e tempi di attesa più lunghi.
Le ragioni di queste chiusure sono molteplici e intrecciate:
1. Carenza cronica di medici e infermieri d’emergenza
Secondo i dati FNOMCeO, in Italia mancano oltre 4.000 medici dell’emergenza-urgenza. I concorsi per queste specializzazioni spesso vanno deserti e il ricorso a cooperative o medici a gettone è diventato strutturale. La difficoltà a garantire la copertura dei turni h24 ha spinto molte Regioni a chiudere PS considerati “non sostenibili”.
2. Razionalizzazione della rete ospedaliera
A partire dal DM 70/2015, la riorganizzazione degli ospedali ha imposto standard minimi di attività e volumi, promuovendo la concentrazione dei servizi in hub di riferimento. Se da un lato ciò ha migliorato la qualità delle cure per patologie complesse, ha però comportato la chiusura di presidi ritenuti marginali, soprattutto nelle aree a bassa densità abitativa.
3. Vincoli finanziari e definanziamento progressivo
Dopo la crisi del 2008, molte Regioni hanno dovuto affrontare piani di rientro dal debito sanitario, riducendo i costi fissi e razionalizzando i servizi. Il Pronto Soccorso, con i suoi costi elevati e la necessità di personale specializzato, è stato spesso visto come un bersaglio inevitabile per i tagli.
Le conseguenze per i cittadiniLa chiusura di un Pronto Soccorso non è solo una questione logistica, ma incide in modo diretto sul diritto alla salute:
- Aumento dei tempi di percorrenza per raggiungere il presidio più vicino, soprattutto nelle aree montane, interne o insulari.
- Sovraccarico delle strutture rimaste attive, con effetti su qualità, sicurezza e tempistiche dell’assistenza.
- Peggioramento della risposta in caso di eventi acuti gravi, dove ogni minuto può fare la differenza (infarti, ictus, traumi).
- Erosione della fiducia nel sistema pubblico, con un progressivo spostamento della domanda verso il privato o l’automedicazione.
In alcune Regioni del Centro-Sud, ad esempio, è emerso che oltre il 20% della popolazione vive oggi a più di 30 km dal PS più vicino, ben oltre le soglie raccomandate dalle linee guida internazionali.
Riorganizzare, non solo chiudere: le proposte in campo
Il report ALTEMS, pur evidenziando le criticità, offre anche spunti di riflessione per un nuovo modello di emergenza-urgenza:
1. Potenziare i Punti di Primo Intervento (PPI) e i CAU
In molti casi, al posto del PS viene attivato un Presidio di Primo Intervento o un Centro di Assistenza Urgenza (CAU). Tuttavia, questi servizi spesso non sono in grado di gestire emergenze reali. Serve una standardizzazione nazionale e un piano formativo per garantire che possano svolgere funzioni complementari, e non sostitutive, al PS.
2. Rafforzare la medicina territoriale e l’integrazione con il 118
Il potenziamento dell’assistenza territoriale h24, previsto dal PNRR attraverso le Case e Ospedali di Comunità, deve essere affiancato da un rafforzamento del 118. L’integrazione tra i servizi di emergenza e la medicina di base può ridurre l’accesso improprio al PS, ma solo se i servizi di prossimità sono realmente operativi e accessibili.
3. Digitalizzazione e telemedicina in area critica
La tecnologia può offrire un supporto rilevante in contesti a bassa densità di popolazione. Progetti di tele-consulto specialistico e triage remoto assistito potrebbero estendere le capacità diagnostiche e decisionali anche in sedi prive di medici d’urgenza.
4. Programmazione regionale trasparente e partecipata
Ogni chiusura o riconversione dovrebbe essere accompagnata da analisi epidemiologiche, valutazioni d’impatto e consultazioni locali. Il principio dell’equità territoriale va salvaguardato anche in fase di razionalizzazione.
Una rete d’emergenza da ripensare, non da smantellare
Il sistema di emergenza-urgenza è l’ossatura vitale del Servizio Sanitario Nazionale. I dati ALTEMS fotografano una tendenza preoccupante: il progressivo indebolimento di questa rete. Ma i dati da soli non bastano. Serve una risposta politica, organizzativa e culturale, che metta al centro l’accessibilità, la sicurezza e la dignità delle cure per tutti i cittadini, indipendentemente dal codice postale.
Parallelamente alla riduzione dei Pronto Soccorso pubblici, si osserva un progressivo spostamento dell’assistenza sanitaria verso il settore privato. La chiusura di presidi d’emergenza nelle aree periferiche e la congestione di quelli ancora attivi stanno alimentando una domanda crescente di prestazioni private, anche in ambito di urgenza. In molte città italiane, soprattutto del Nord, stanno nascendo strutture private che offrono servizi di Pronto Soccorso “a pagamento”, accessibili in tempi rapidi ma solo per chi può permetterselo.
Secondo recenti rilevazioni dell’ISTAT e del CENSIS, oltre il 40% degli italiani ha sostenuto almeno una spesa sanitaria privata nell’ultimo anno per aggirare le lunghe attese del sistema pubblico. Questo fenomeno, se non governato, rischia di minare i principi di universalismo ed equità del SSN, trasformando la salute in un bene selettivo e non più garantito per tutti.
Le Regioni, spesso alle prese con bilanci sanitari in sofferenza, tendono a esternalizzare servizi, affidare attività diagnostiche o di triage al privato accreditato e stipulare convenzioni temporanee per “alleggerire” la rete ospedaliera pubblica. Una strategia emergenziale che, però, rischia di produrre un indebolimento strutturale della sanità pubblica, rendendola residuale e meno attrattiva per i professionisti.