È ancora prassi invalsa nel sistema sanitario nazionale quella di ricorrere, per sopperire alle endemiche carenze di personale, allo strumento del conferimento di incarichi professionali individuali devoluti attraverso procedure regolamentate a livello aziendale.
Fin qui nulla di particolare, trattandosi di una evenienza che, seppur a carattere eccezionale, è certamente legittima, siccome riconosciuta dall’art. 7, comma 6, del d. lgs. n. 165/2001 e successive proroghe.
La disputa si palesa, però, nel momento in cui le amministrazioni fanno abusivo ricorso a questo strumento e, soprattutto, allorchè il rapporto di lavoro, che dovrebbe mantenere i connotati di una piena autonomia, denota caratteristiche tipiche della subordinazione, da cui la possibilità per l’interessato di reclamare il riconoscimento delle differenze retributive, contributive e relativa ricostruzione della carriera.
Il caso del medico ginecologo: otto anni da collaboratore, ma trattato da dipendente
È proprio quanto accaduto ad un medico, specialista in ginecologia, che per otto anni aveva prestato la propria attività lavorativa, senza soluzione di continuità, per la stessa azienda sanitaria, giusta sottoscrizione di reiterati contratti di collaborazione professionale ex art. 7 comma 6 del d.lgs. 165/2001.
Sosteneva che, in realtà, l’intero rapporto di lavoro si era dispiegato secondo modalità proprie della subordinazione dal momento che, in primis, tali contratti non fossero finalizzati a sopperire ad esigenze di carattere eccezionale, quanto piuttosto alla gestione del fabbisogno ordinario del nosocomio.
Inoltre, la sua attività risultava assoggettata a stringenti poteri di direzione del datore di lavoro, che di fatto impartiva direttive cogenti, venendo inoltre assoggettato al suo potere disciplinare, nonché inserito nella rotazione turnistica, al pari degli altri dirigenti medici dipendenti, con necessità di veder autorizzati periodi di riposo e giustificate eventuali assenze dal lavoro.
Il Tribunale del Lavoro di Benevento, con la sentenza n. 651/2025, pubblicata il 30 maggio scorso, ha dato ragione al medico riconoscendo la natura subordinata del rapporto di lavoro, avendone individuato chiari indici rilevatori da tutto il corredo probatorio fornito dal sanitario durante la vertita istruttoria.
Quando la collaborazione maschera un rapporto di lavoro subordinato
Vale innanzitutto ricordare come l’art. 7, comma 6, del d. lgs. n. 165/2001 consenta espressamente alle amministrazioni pubbliche di ricorrere allo strumento della contrattazione libero professionale, tutte le volte in cui debbano conferirsi incarichi individuali ad esperti di particolare e comprovata specializzazione, anche universitaria.
I requisiti che, secondo il richiamato disposto normativo, debbono sussistere per consentire l’accesso a questa eventualità sono i seguenti:
- l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente;
- l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;
- la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata;
- non è ammesso il rinnovo, per cui l'eventuale proroga dell'incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell'incarico;
- devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione.
Come si riconosce la subordinazione in un rapporto di lavoro: i criteri della giurisprudenza
Nel motivare la sua decisione, il magistrato beneventano prende le mosse dalla ricostruzione giurisprudenziale sull’individuazione dei tratti caratteristici del vincolo della subordinazione, ricordando che, ai sensi, dell’art. 2094 c.c. “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
Questa disposizione deve poi leggersi in combinato disposto con ulteriori norme (artt. 2099 e ss., 2104, 2104, 2106 c.c.), dalla cui interpretazione la Cassazione ha tratto alcuni significativi indici rivelatori della subordinazione che, sistematizzati dal giudice, vengono identificati:
- nella presenza di eterodirezione delle modalità, anche di tempo e di luogo, della prestazione lavorativa;
- nell’inserimento stabile del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’impresa;
- nell’utilizzo di locali, mezzi e strutture fornite dal datore di lavoro;
- nell’assenza di rischio imprenditoriale;
- nell’obbligo di osservanza di un orario di lavoro e di frequenza giornaliera, con correlati obblighi di giustificazione dei ritardi e delle assenze;
- nella continuità della collaborazione, quale obbligo ideale tendenzialmente stabile di messa a disposizione da parte del dipendente delle energie lavorative; - retribuzione predeterminata a cadenza fissa;
- nel pagamento dello straordinario, godimento delle ferie, versamento di contributi - assicurativi; - esclusività della prestazione;
- nell’infungibilità soggettiva della prestazione;
- nell’esercizio di mansioni meramente esecutive.
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Perché il medico ha vinto: orari imposti, badge, ferie e direttive aziendali
E’ chiaro che, dovendo calare questi principi nell’ambito di una prestazione lavorativa dai tratti assolutamente peculiari dovuti al fatto che, proprio per la sua natura eminentemente intellettuale, risulta meno intenso l’assoggettamento del medico all’eterodirezione aziendale, la stessa giurisprudenza di legittimità ha dovuto valorizzare maggiormente aspetti, generalmente ritenuti sussidiari, quali l’inserimento in turni lavorativi predisposti dalla azienda, la sottoposizione a direttive circa lo svolgimento dell'attività, laddove eccedenti rispetto alle esigenze dovute al normale coordinamento dell’attività nel suo complesso, ovvero altre circostanze specifiche.
Le prove fornite dalla difesa del medico sono quindi state ritenute adeguate a dimostrare l’ininterrotta attività svolta dal sanitario a favore della struttura, secondo orari imposti dalla parte datoriale e nell’ambito dell’organizzazione aziendale, utilizzando locali, mezzi e strutture fornite direttamente dall’amministrazione, senza assunzione di alcun rischio imprenditoriale, con obbligo di osservanza di un orario di lavoro e di frequenza giornaliera.
Il medico risultava poi sottoposto, come i suoi pari ruolo dipendenti, alle direttive del responsabile del reparto a cui era assegnato, nonché inserito nella rotazione turnistica, avendo a disposizione un badge aziendale e dovendo richiedere in anticipo le assenze per ferie, da coordinare con tutto il team per garantire la continuità del servizio.
Oltremodo rilevante è stata, infine, la riscontrata circostanza per cui proprio la modalità con cui si era dispiegato l’intero rapporto di lavoro (durato diversi anni, a seguito di plurime rinnovazioni) svelasse l’assenza di quel progetto che, a tenor di norma, dovrebbe sempre sussistere per giustificare il ricorso a contratti di collaborazione continuativa e coordinata, rendendo evidente come, invece, fosse stato utilizzato per sopperire ad esigenze del tutto ordinarie e senza alcun profilo di eccezionalità e temporaneità.
La sentenza del Tribunale: riconosciuta la subordinazione, spettano differenze retributive
Riconosciuto pertanto il vincolo della subordinazione nel rapporto, il Tribunale del Lavoro di Benevento ha dunque fatto ricorso al disposto di cui all’art. 2126 c.c., applicabile al pubblico impiego, che, pure laddove si dichiari la nullità del rapporto di lavoro, mantiene inalterate le tutele a favore del lavoratore che, avendo comunque fornito le prestazioni di cui la PA si è avvantaggiata, ha diritto a ricevere le differenze retribuite maturate sulla base di un contratto nullo o successivamente annullato.
Pertanto, è seguita la condanna dell’azienda sanitaria al pagamento in favore del medico ricorrente di oltre 47 mila euro, a titolo di differenze retributive relative agli anni non coperti dalla prescrizione quinquennale già intervenuta, e di liquidazione del TFR, imponendo alla parte datoriale di provvedere al versamento della relativa contribuzione, con vittoria delle spese di giudizio.