Il demansionamento lavorativo: un fenomeno in costante crescita in Sanità

Il demansionamento lavorativo sta assumendo dimensioni importanti in ambito sanitario. Cosa fare quando si viene affidati ad una mansione sotto le proprie competenze?

Sempre di grande attualità la questione del demansionamento lavorativo che, di fatto, colpisce quotidianamente numerose categorie di lavoratori, non ultime anche quelle appartenenti all’intera area sanitaria, sia pubblica che privata.

Costantemente pervengono all’attenzione dell’area di consulenza legale del Gruppo Consulcesi segnalazioni da parte di professionisti sanitari che, appartenenti alle più disparate branche specialistiche, denunciano un uso improprio e fortemente demansionante del datore di lavoro dei rispettivi profili lavorativi, spesso ricondotto dalle aziende alle ormai note carenze strutturali, a cui si vorrebbe ovviare adibendo una parte del personale allo svolgimento continuativo di attività non coerenti con le specifiche competenze.

I principi generali

In linea di principio, la questione viene ricondotta alla disciplina prevista dall’art. 2103 del codice civile che, per l’appunto, stabilisce che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, ovvero ad altre che risultino comunque equivalenti a quelle previste dal contratto. Va ricordato, altresì, che il demansionamento ricorre, non soltanto nell’ipotesi che precede, ma anche quando il datore priva il dipendente di tutte o gran parte delle mansioni prima esercitate, così riducendo grandemente l’impegno lavorativo con conseguente inevitabile perdita di competenze professionali.

La ratio della norma è proprio quella di tutelare, con un presidio rafforzato dalla riconosciuta inderogabilità del disposto, la dignità e professionalità del lavoratore, che di fatto potrebbero essere vulnerate dall’eventuale assegnazione a mansioni inferiori a quelle pattuite.

Nell’ambito del pubblico impiego, questa disposizione viene ulteriormente rafforzata dalla previsione inserita nell’art. 52 del D. Lgs. 165/2001, secondo cui: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all'articolo 35, comma 1, lettera a)”.

Il demansionamento lavorativo

L’atteggiamento datoriale che, debitamente provato, potrebbe interpretarsi come un demansionamento consiste di regola nell’assegnare al dipendente compiti ed incarichi che, alla luce delle competenze professionali richieste dal suo profilo, risultino inferiori o comunque non conformi a quelle stabilite, ovvero nell’annullare o perlomeno ridurre drasticamente le mansioni a cui era adibito, da ciò derivando un possibile impoverimento delle capacità professionali del lavoratore, l’impedimento ad assumerne di ulteriori e superiori, con relativa perdita di chance occupazionali e quindi di guadagno.

C’è da dire che questi danni non possono essere riconosciuti automaticamente ogni qual volta sussista un inadempimento datoriale da demansionamento, ma implicano sempre la prova dei pregiudizi concretamente reclamati, eventualmente ricorrendo anche al sistema presuntivo, previsto dall’art. 2729 c.c., allegando specificatamente circostanze ed elementi gravi, precisi e concordanti da cui far discendere l’apprezzamento positivo del magistrato sulla ricorrenza del pregiudizio invocato.

Il caso concreto in Sanità

Di recente, la Corte di Cassazione ha avuto modo, con la sentenza n. 23813/22, di esprimersi proprio su una fattispecie di demansionamento lavorativo denunciato da alcuni collaboratori professionali sanitari, inquadrati nella categoria D del CCNL del comparto, che di fatto avevano convenuto in giudizio la loro Azienda deducendo l’illegittimità della condotta datoriale per averli assegnati allo svolgimento di mansioni inferiori di natura alberghiera e di igiene di pazienti allettati, invero attribuibili al personale ausiliario inquadrato nelle categorie A e BS. Sia in primo che in secondo grado, veniva accertata l’illegittimità della condotta datoriale risultando dimostrata la circostanza per cui i ricorrenti erano stati frequentemente adibiti all’esecuzione di mansioni di spettanza al personale operativo ed ausiliario addetto, fornendo prestazioni a favore di pazienti ricoverati, in gran parte non autosufficienti, con conseguente riconoscimento del danno all’immagine professionale ed alla dignità personale liquidato in misura equitativa.

La decisione della Cassazione

Presentato ricorso di legittimità, con cui l’Azienda Sanitaria assumeva la violazione dell’art. 2697 c.c. non risultando, a suo dire, compiutamente allegata e dimostrata l’effettiva sussistenza del danno lamentato dai ricorrenti leggendosi nella pronuncia impugnata che, nel caso di specie, l’evento lesivo non avrebbe necessità di specifica prova, la Corte ha definitivamente respinto la tesi datoriale.

Nel motivare, si è infatti osservato che il ragionamento per presunzioni svolto dalla Corte di appello doveva considerarsi del tutto corretto, per cui l’aver ritenuto l’assegnazione quotidiana di mansioni inferiori mortificanti, corredata dal fatto che tale circostanza era conosciuta sia all’interno che all’esterno della azienda, era sufficiente ad inferire l’effettiva sussistenza della lesione dell’immagine professionale e della dignità personale degli infermieri ricorrenti.

La frequenza ed il carattere pubblico della condotta demansionante tenuta dalla parte datoriale diventano allora rilevanti per il riconoscimento del danno patito, non necessitandosi di ulteriore specifica prova al riguardo, con conseguente conferma della decisione impugnata e relativa condanna alle spese.

Il ricorso ai principi di equità per la quantificazione del danno

Ferma restando la necessità di pervenire, anche se solo attraverso presunzioni, alla prova del demansionamento lavorativo e dei conseguenziali pregiudizi occorsi al lavoratore, va quindi ricordato che la valorizzazione economica del danno potrà comunque discendere dal giudizio equitativo del magistrato che, ricorrendo ai criteri previsti dall’art. 1226 c.c., sarà soltanto tenuto a dar conto di tutte le circostanze concrete del caso esaminato, al fine di riconoscere al danneggiato un ristoro effettivo e proporzionato al danno realmente sofferto.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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