Reperibilità notturna: è dovuto l’adeguamento retributivo?

La Cassazione 2025 chiarisce: la reperibilità notturna è orario di lavoro e va retribuita in modo proporzionato. Scopri cosa prevede la legge.

Sommario

  1. Orario di lavoro: la definizione europea
  2. Le linee di interpretazione della Corte di Giustizia Europea
  3. La reperibilità passiva
  4. La sentenza di Cassazione

Sempre più spesso viene garantita, nell’ambito del pubblico impiego così come in quello privato, la  disponibilità dei dipendenti a rimanere sul posto di lavoro, ricoprendo turni di pernottamento notturno senza impegno allo svolgimento di specifiche prestazioni materiali, ovvero a restare in attesa di possibili chiamate, in entrambi i casi pronti alla tempestiva ripresa del servizio per improvvise necessità.

Questa particolare condizione lavorativa viene vissuta da vari ambiti del mondo lavorativo, fra i quali quello sanitario dove, per garantire la cd. continuità assistenziale, viene spesso fatto ricorso al servizio di pronta disponibilità, che impone al lavoratore (medici, infermieri ecc…) di rientrare sul posto di lavoro nel più breve possibile, per riprendere il servizio in caso di chiamata, risultando così significativamente compresso il suo diritto di gestire, in piena libertà, il tempo di riposo concessogli dalla legge per i fini più desiderati.

Il punto in discussione si incentra soprattutto sulla qualificazione giuridica della reperibilità (cd. passiva), ciò potendo implicare importanti riflessi in termini di adeguamento retributivo, tenuto conto dei principi espressi dalla Corte di Giustizia Europea sul tema.

Orario di lavoro: la definizione europea

Per avere chiara la nozione di orario di lavoro, occorre rifarsi al testo della direttiva 2003/88/UE che, al suo art. 2 n. 1, disciplina chiaramente il perimento di ciò che rientra, a buon diritto, nel tempo di lavoro, delineando per converso ciò che, invece, risulta fuori da questa ipotesi.

La linea di confine non risulta correlata all’esecuzione materiale della prestazione oggetto del contratto di lavoro, quanto piuttosto al fatto che il dipendente, ancorchè non impegnato direttamente, risulti comunque a disposizione della parte datoriale per l’eventuale svolgimento di una specifica attività.

Come si legge, la disposizione comunitaria testè richiamata riproduce la nozione di orario di lavoro, riconoscendolo in “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali”.

Le linee di interpretazione della Corte di Giustizia Europea

Nel fornire un corretto quadro interpretativo dei principi normativi contenuti nella direttiva 2003/88/UE, fornendo così le linee guida ai giudici nazionali per la valutazione di legittimità delle normative interne, la Corte di Giustizia ha, fin da principio, ripetuto come l’obbiettivo del legislatore comunitario è sempre quello di garantire più elevati standard di vita e di lavoro dei lavoratori, prevedendo maggiore sicurezza e salute, anche mediante previsioni dirette a stabilire periodi massimi di lavoro e rispettivi tempi di riposo.

Ripresa la definizione riprodotta nel citato art. 2, si è quindi affermato come il concetto di orario di lavoro risulti antitetico rispetto a quello di riposo, venendosi ad elidere l’uno con l’altro, senza che si possa configurare alcuna categoria intermedia.

L’aspetto determinante, per ritenere sussistenti gli elementi caratteristici della nozione di orario di lavoro ai sensi della direttiva 2003/88, risiede allora nel fatto che il lavoratore sia tenuto, per contratto o per disposizione datoriale, ad essere fisicamente presente sul luogo designato dal datore di lavoro, rimanendo a disposizione di quest’ultimo al fine di poter fornire la propria prestazione in caso di necessità (CGUE sentenza del 9 marzo 2021).

La reperibilità passiva

La stessa Corte di Giustizia Europea si è, però, espressa anche con riferimento a quelle situazioni in cui, diversamente da quelle testè ricordate, il dipendente non aveva l’obbligo di permanenza sul posto di lavoro, sottolineando come, in questi casi, i periodi di reperibilità devono essere comunque qualificati come “orario di lavoro” (C-151/02 del 9/09/2002).

Ancor più di recente, la stessa Corte ha ribadito come la reperibilità rientri, a buon diritto, nell’alveo dell’orario di lavoro tutte le volte in cui i vincoli imposti al dipendente siano tali di comprimere fortemente le modalità di gestione del proprio tempo libero (C- 344/19 del 9 marzo 2021).

L’articolo 2, punto 1, della direttiva 2003/88 deve essere quindi interpretato nel senso che un servizio di pronto intervento in regime di reperibilità, durante il quale un lavoratore è tenuto a raggiungere il posto di lavoro in un termine estremamente ridotto, può considerarsi «orario di lavoro» allorchè, valutata la situazione nella sua intera complessità, emerga chiaramente una compromissione oggettiva del diritto del dipendente a fruire liberamente del tempo di riposo.

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La sentenza di Cassazione

Proprio di recente, è nuovamente intervenuta sulla questione la Corte di Cassazione Sez. Lavoro che, con l’ordinanza n. 10648/2025, ha avuto modo di precisare il suo già consolidato orientamento, frutto di una corretta applicazione della linea interpretativa fornita dai precedenti comunitari.

Come si legge, l’antitesi esistente fra la nozione di orario di lavoro e periodo di riposo implica che il turno di reperibilità notturno, laddove presenti quelle caratteristiche di particolare incidenza sul diritto al riposo del lavoratore, debba essere adeguatamente valorizzato in termini di retribuzione, non foss’altro per rispetto ai principi sanciti dalla Carta costituzionale.

L’art. 36 Cost. prevede, infatti, che il giudice nel determinare il giusto compenso debba aver riguardo, quali parametri di commisurazione, in via preliminare alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale categoria, dalla quale può però motivatamente discostarsi, anche d’ufficio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall'art. 36 Cost. (Cass. n. 27711, n. 27713, n. 27769/2023; cfr. anche Cass. n. 28320, n. 28321, n. 28323/2023);

Conseguenziale la petizione di principio assunta dalla Corte per cui “in base alla normativa dell’Unione europea, come interpretata dalla Corte di Giustizia e come attuata nella normativa italiana, la definizione di “orario di lavoro” va intesa in opposizione a quella di “riposo”, con reciproca esclusione delle due nozioni; l’obbligo, per il lavoratore, di svolgere turni di pernottamento presso il luogo di lavoro, anche se non determinante interventi di assistenza, va considerato orario di lavoro e deve essere adeguatamente retribuito; la retribuzione dovuta per tali prestazioni deve essere conforme ai criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall'art. 36 Cost.”.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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