Sanità: tutti stressati ma chi paga?

La qualificazione dell’azione giudiziale non è vincolante, ciò che importa è l’apprezzamento della violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo generale di cui all'art. 2087 c.c., per cui rimane fermo l’obbligo del giudice di accertare se, sulla base dei fatti allegati e dimostrati nel processo, sia comunque individuabile un’ipotesi di responsabilità datoriale per aver omesso l’adozione delle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

Sommario

  1. Mobbing e straining: due figure a confronto
  2. Il mobbing lavorativo
  3. Responsabilità datoriale diretta od indiretta
  4. L’approdo della giurisprudenza
  5. L’approdo della giurisprudenza

È ormai notoria l’alta percentuale di operatori sanitari che riferiscono di vivere in un ambiente lavorativo ostile, dovendo subire condotte asseritamente mobbizzanti, o comunque illegittime, da parte dell’azienda, ovvero di suoi preposti o di colleghi di reparto.

Situazioni che, il più delle volte, si protraggono apertamente per molto tempo, provocando nel malcapitato dipendente uno stato di prostrazione fisica e morale che, senza giungere per forza a diagnosi di burn out conclamato, incidono pesantemente sul suo benessere psicofisico, riducendolo talvolta in modo molto significativo. Lodabili tutte le iniziative introdotte per monitorare gli eventi potenzialmente lesivi, formare il personale per migliorare la gestione delle relazioni e per sensibilizzare le istituzioni perché vengano adottati tutti gli accorgimenti necessari al contenimento del rischio di un'escalation, che pare irrefrenabile, ma il punto è anche un altro: chi dovrebbe rispondere dei danni provocati? 

Mobbing e straining: due figure a confronto

In estrema sintesi, le nozioni di mobbing e di straining,malgrado non abbiamo autonoma rilevanza giuridica,identificano alcuni comportamenti che, di fatto, vanno a contrastare gli obblighi imposti dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. e della disciplina normativa in tema di sicurezza sul lavoro e tutela della salute e dell’integrità morale dei lavoratori.

Il mobbing lavorativo

Il mobbing lavorativo, a differenza del secondo, è certamente più difficile da riscontrare, potendosi configurare soltanto al rigoroso ricorrere delle seguenti condizioni:

  1. a) l’identificazione di una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere, dal datore di lavoro, da un suo preposto, ovvero da altri dipendenti sottoposti al potere diretto dei precedenti, contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo;
  2. b) la verificazione di un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  3. c) l’individuazione del nesso causale tra le condotte “mobbizzanti” ed il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; 
  4. d) la dimostrazione dell’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi realizzato in danno del dipendente.

La specificità di questa situazione risiede proprio nella individuazione, conseguente alla prova fornita dalla vittima, di quell’intento persecutorio che racchiude, in sé, l’intera molteplicità dell’iniziative attuate nei confronti della vittima, a prescindere dalla legittimità o illegittimità dei singoli atti, dal momento che questo intento unificante colora di illecito anche condotte che, di per sé, sarebbero astrattamente legittime.

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Responsabilità datoriale diretta od indiretta

Laddove ricorrano le condizioni descritte in precedenza, che costituisce preciso onere del dipendente, che si assume esserne vittima, compiutamente allegare e conseguentemente dimostrare a mezzo di validi risultanze probatorie (documenti, testimonianze ecc…), è quindi possibile individuare una fonte di responsabilità a carico del datore di lavoro sia diretta, qualora costui si renda autore o partecipe del comportamento vessatorio, sia indiretta quando, invece, risulti che siano stati altri lavoratori a porre in essere la condotta illegittima, senza che il primo abbia fatto alcunchè per impedirlo.

L’approdo della giurisprudenza

Proprio di recente, la Corte di Cassazione ha inteso ribadire (ord. n. 123/2025) che, anche quando non sia configurabile una fattispecie di mobbing per l’assenza dell’intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità di condotte pregiudizievoli, è sempre possibile riscontrare la violazione dell'art. 2087 c.c. a carico della parte datoriale, laddove abbia contribuito a mantenere, per negligenza, un ambiente lavorativo altamente stressogeno e, per ciò solo, fonte di danno alla salute dei lavoratori, ovvero abbia posto in essere comportamenti, magari in sé pienamente legittimi, ma con modalità tali da provocare disagi o stress per il lavoratore.

In estrema sintesi, non è tanto la qualificazione dell’azione giudiziale introdotta che importa, quanto piuttosto l’apprezzamento della violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo generale di cui all'art. 2087 c.c., per cui rimane fermo l’obbligo del giudice di accertare se, sulla base dei fatti allegati e dimostrati nel processo, sia comunque individuabile un’ipotesi di responsabilità datoriale per aver omesso l’adozione delle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

L’approdo della giurisprudenza

Proprio di recente, la Corte di Cassazione ha inteso ribadire (ord. n. 123/2025) che, anche quando non sia configurabile una fattispecie di mobbing per l’assenza dell’intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità di condotte pregiudizievoli, è sempre possibile riscontrare la violazione dell'art. 2087 c.c. a carico della parte datoriale, laddove abbia contribuito a mantenere, per negligenza, un ambiente lavorativo altamente stressogeno e, per ciò solo, fonte di danno alla salute dei lavoratori, ovvero abbia posto in essere comportamenti, magari in sé pienamente legittimi, ma con modalità tali da provocare disagi o stress per il lavoratore.

In estrema sintesi, non è tanto la qualificazione dell’azione giudiziale introdotta che importa, quanto piuttosto l’apprezzamento della violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo generale di cui all'art. 2087 c.c., per cui rimane fermo l’obbligo del giudice di accertare se, sulla base dei fatti allegati e dimostrati nel processo, sia comunque individuabile un’ipotesi di responsabilità datoriale per aver omesso l’adozione delle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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