Obesità infantile, dalla genetica ai fattori psicologici: “Quando la fame non si spegne mai”

Intervista a Flavia Prodam, endocrinologa e docente di Scienze della nutrizione all’Università del Piemonte Orientale

Sommario

  1. L’obesità non è una sola: forme genetiche, sindromiche e multifattoriali
  2. La dimensione psicologica: un carico invisibile, ma pesante
  3. Obesità nei bambini: perché serve una diagnosi precoce e un linguaggio corretto

“L’obesità è una malattia e come tale va riconosciuta, compresa e affrontata. Anche, e soprattutto, quando si manifesta nei più piccoli”. Lo ricorda la professoressa Flavia Prodam, endocrinologa, docente di Scienze della nutrizione all’Università del Piemonte Orientale e membro della Commissione scientifica della Società Italiana di Endocrinologia (SIE), oltre che coordinatrice regionale per Piemonte e Valle d’Aosta della stessa Società e componente del registro europeo ECLip sulle lipodistrofie. 

L’obesità non è una sola: forme genetiche, sindromiche e multifattoriali

"È fondamentale chiarire che esistono diversi tipi di obesità – spiega Prodam –. Abbiamo forme genetiche, sindromiche e multifattoriali. In particolare, l’obesità genetica si manifesta tipicamente in età infantile: le stime indicano una prevalenza tra l’1 e il 3% a seconda delle popolazioni. I segnali per riconoscerla? Un rapido incremento ponderale già nei primi anni di vita, spesso in età prescolare, prima dei sei anni. Nella maggior parte dei casi, si associa a iperfagia: una fame incontrollabile, un senso di sazietà mai raggiunto. Questo può tradursi in un pianto persistente e in una ricerca continua di cibo, soprattutto alimenti ricchi di carboidrati e grassi". Individuare questi segnali è compito del pediatra, che ha la responsabilità di orientare la famiglia verso un centro specialistico. "Ogni forma di obesità genetica ha caratteristiche cliniche specifiche – sottolinea la professoressa – ma l’incremento ponderale precoce e l’iperfagia rappresentano i primi campanelli d’allarme". 

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La dimensione psicologica: un carico invisibile, ma pesante

Nelle forme genetiche, il problema va ben oltre il peso corporeo. "Sono condizioni resistenti alle terapie basate sullo stile di vita - chiarisce Prodam - . Il bambino non riesce a perdere peso, ma soprattutto non riesce a controllare l’impulso della fame. Questo genera frustrazione, senso di fallimento e stigma, sia nel paziente che nella famiglia". E non accade solo nei casi di obesità genetica. "Anche nelle forme multifattoriali – le più comuni – i disturbi del comportamento, l’ansia e la depressione sono frequenti. Il calo ponderale è difficile da raggiungere, il giudizio sociale resta costante, e mantenere uno stile di vita sano diventa complicato". Per questo è necessario un approccio multidisciplinare. "Servono figure altamente qualificate che supportino la persona – e non solo il paziente – lungo tutto il percorso terapeutico: dall’aspetto clinico a quello psicologico".

Obesità nei bambini: perché serve una diagnosi precoce e un linguaggio corretto

Che cosa possono fare i professionisti sanitari per migliorare la presa in carico? Secondo Prodam, il primo passo è osservare la storia ponderale e il comportamento alimentare fin dai primi anni. "Capire quando il paziente ha iniziato a prendere peso, e notare l’eventuale presenza di iperfagia, permette di individuare chi ha bisogno di un approfondimento specialistico di terzo livello. Gli strumenti per farlo esistono, dobbiamo solo imparare a utilizzarli correttamente". Ma c’è anche un’altra sfida, forse meno tecnica ma altrettanto cruciale: il linguaggio. "È ora di riconoscere l’obesità come una patologia, abbandonando qualsiasi forma di stigmatizzazione. Dobbiamo aiutare i pazienti a intraprendere un percorso che include sì lo stile di vita, ma anche – quando necessario – il supporto psicologico. Solo così si può costruire una strategia efficace, che non sempre è il dimagrimento, ma anche solo il non recuperare peso".

Di: Isabella Faggiano, giornalista professionista

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