La signora A, incinta del quinto figlio e al nono mese di gravidanza, si ricovera presso la Casa di Cura B per sottoporsi all’intervento chirurgico di taglio cesareo programmato; l’intervento viene eseguito dal dottor C, medico di fiducia della puerpera, assistito dal dottor D e dall’ostetrica E.
L’intervento inizia alle 15:00 e termine alle 15:50; al termine, verso le ore 16:00, dopo il controllo post partum, la signora A viene ricondotta nella sua stanza, per trascorrervi la fase del puerperio.
La signora A, dopo l’intervento, viene controllata più volte, alle ore 16:30 per il rilevamento della temperatura corporea e della pressione arteriosa e alle ore 18:00 da parte del chirurgo operatore, che riscontra condizioni della paziente buone e utero contratto.
Tuttavia, alle ore 19:00 l’ostetrica E allerta il medico di turno, dottor F, in quanto la paziente presenta un grave quadro di shock ipovolemico in atto; viene allertato anche il medico di guardia di ginecologia, dott. G, che rileva i seguenti sintomi:
- dispnea,
- ipotensione,
- tachicardia,
- abbondanti perdite dai genitali esterni.
Vengono somministrati prontamente farmaci, ma la paziente non migliora, tanto da rendersi necessario un intervento di laparotomia esplorativa, praticato alle ore 20:00, cui segue, poco dopo, una laparoisterectomia con diagnosi di atonia uterina postcesareo.
Durante l’intervento la signora A ha un arresto cardiocircolatorio, dal quale, a seguito della somministrazione delle manovre di emergenza, si riprende.
Al termine dell’intervento la donna, ripreso il ritmo cardiaco, viene trasportata presso il reparto di rianimazione dell’Ospedale di B, dove purtroppo decede dopo sette giorni di agonia.
I familiari della signora A, ritenendola vittima di un caso di malasanità, si rivolgono alla Procura della Repubblica denunciando tutti i componenti dell’equipe medica che ha avuto in cura la donna.
Il principio di affidamento e i limiti della responsabilità d’equipe
La vicenda che ha per protagonista la signora A rientra nella cosiddetta responsabilità dell’equipe, che si configura quando più medici si occupano, in successione, dello stesso paziente, anche al di fuori dell’attività specificamente chirurgica in sala operatoria.
Vige, nel caso di responsabilità di equipe, il principio dell’affidamento: in parole semplici, il medico che, ad esempio, opera un paziente poi lo “affida” alle cure post-operatorie del medico di reparto, dell’infermiere, del personale medico specializzato (fisioterapista, ostetrico, ecc.), facendo “affidamento” sulla loro diligenza e sulla correttezza del loro operato.
Il principio di affidamento non è senza limiti, ma deve essere contemperato con l’obbligo di garanzia verso il paziente, che grava su tutti i sanitari che partecipano, contestualmente o successivamente, all’intervento terapeutico erogato nei confronti del paziente.
Quando la responsabilità medica coinvolge una intera equipe, come nel caso di specie, il capo dell’equipe chirurgica è gravato da una posizione di garanzia che si estende anche al decorso post-operatorio (così, ad esempio, Cassazione n. 22007/2018, Cassazione n. 17222/2012), in quanto il momento immediatamente successivo all’atto chirurgico in sé non è staccato dall’intervento operatorio.
In presenza di situazioni ad altro rischio, inoltre, il capo equipe, pur in mancanza di specifici segnali di allarme, è tenuto ad adottare tutte le cautele del caso e, in particolare, a disporre un attento regime di monitoraggio del paziente, effettuando, tramite il personale preposto e qualificato, tutti i controlli necessari al fine di evitare eventi lesivi della salute del paziente (così Cass. Pen. Sez. IV n. 13375/2024).
Nel caso di specie, deve evidenziarsi che in letteratura medica l’emorragia post partum è la principale causa di morte correlata alla gravidanza, responsabile di ben il 30% di tutte le morti materne: per questo motivo la fase del post partum deve essere oggetto di un attento monitoraggio da parte del personale sanitario, in quanto il ritardo nell’intervento, nell’ipotesi di atonia uterina, conduce con estrema frequenza al decesso della puerpera.
Peraltro, la signora A era una paziente maggiormente esposta al rischio di atonia uterina e conseguente emorragia, poiché si stava sottoponendo al quinto parto cesareo.
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Dal dibattimento è emerso che il decesso della paziente è avvenuto per emorragia post partum da atonia uterina.
La causa del decesso non è imputabile né all’intervento di taglio cesareo né a quello di rimozione dell’utero d’urgenza, entrambi eseguiti a regola d’arte, bensì alla mancata corretta vigilanza sulla paziente nelle prime ore successive al parto, la cosiddetta fase iniziale del puerperio.
Se, nella fase immediatamente successiva al parto, la donna avesse avuto un monitoraggio costante e corretto e fossero stati verificati i parametri relativi alla pressione arteriosa, alla frequenza cardiaca, alla contrazione dell’utero e ai livelli di emoglobina nel sangue, l’atonia uterina e l’emorragia post partum in corso sarebbero state diagnosticate precocemente e tempestivamente e la donna non sarebbe deceduta.
Tuttavia, gli imputati vengono mandati assolti dal reato in quanto il reato si è prescritto, essendo decorsi ben undici anni tra la morte della donna e la sentenza definitiva emessa dalla Corte di Cassazione.
Permangono, per il dottor B, gli effetti civili derivanti dall’aver commesso l’omicidio colposo della signora A per malpractice: in sede civile, dovrà risarcire gli eredi della donna per il danno subito.