Rischio clinico in cardiologia: la guida

Rischio clinico in cardiologia: storia della responsabilità medica, legge Gelli Bianco, linee guida e casi pratici per evitare di esercitare la medicina difensiva.

Il diritto alla salute è uno dei diritti fondamentali dell'uomo e della collettività, tutelato dall'articolo 32 della Costituzione italiana; la norma fissa il principio della gratuità delle cure per gli indigenti, oltre che il principio per cui un trattamento sanitario può essere reso obbligatorio solo per disposizione di legge. In nessun caso, comunque, una legge che obblighi a un determinato trattamento sanitario può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

All'interno del diritto alla salute rientra anche il diritto a delle cure sicure, da garantire sia nell'interesse dell'individuo che della collettività. La sicurezza delle cure si realizza attraverso le attività di prevenzione e gestione del rischio connesso all'erogazione di prestazioni sanitarie (il cosiddetto clinical risk management), utilizzando in maniera appropriata le risorse strutturali, tecnologiche e organizzative a disposizione, nonché le risorse umane, rappresentate dai liberi professionisti operanti all'interno di strutture pubbliche o private, anche in regime di convenzione con il SSN.

Al principio della sicurezza delle cure si affianca quello della trasparenza: in virtù di questo principio tutta la documentazione relativa a un trattamento sanitario eseguito presso una struttura pubblica o privata deve essere facilmente accessibile dagli interessati e consegnata loro entro sette giorni dalla presentazione della richiesta, termine prorogabile fino a un massimo di trenta giorni, nel caso si rendano necessarie delle integrazioni.

In virtù dei principi di sicurezza e trasparenza delle cure, le strutture sanitarie, pubbliche e/o private, devono pubblicare sui propri siti internet i dati relativi a tutti i risarcimenti erogati nell'ultimo quinquennio, così come verificati nell'ambito dell'esercizio della funzione di monitoraggio, prevenzione e gestione del rischio sanitario (risk management).

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Rischio clinico in cardiologia: storia della responsabilità medica, legge Gelli Bianco, linee guida e casi pratici per evitare di esercitare la medicina difensiva.

La responsabilità medica: un po' di storia

La disciplina sul rischio clinico in Italia è sempre stata oggetto di un ampio dibattito tra gli operatori del settore, anche alla luce dell'evoluzione interpretativa e normativa che si è susseguita nel tempo. L'originaria impostazione della giurisprudenza italiana tendeva a tutelare in maniera abbastanza ampia il professionista sanitario dal rischio di essere evocato in giudizio per un caso di malpratice, e ciò interpretando la norma civile in senso letterale: quando un paziente veniva ricoverato presso una struttura sanitaria pubblica non si instaurava alcun rapporto contrattuale, né con la struttura né con il medico che lo prendeva in cura, pertanto non si ravvisavano profili di responsabilità di sorta. 

Inizialmente la giurisprudenza individuava una sorta di corresponsabilità tra la struttura sanitaria e il medico che vi esercitava, salvo che quest'ultimo avesse agito con dolo. Questa tesi giurisprudenziale fu successivamente sostituita dalla cosiddetta teoria del contatto sociale qualificato, di origine tedesca, in virtù della quale l'accettazione del paziente nell'ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un vero e proprio contratto d'opera professionale tra il paziente e l'ente ospedaliero: conseguentemente, la struttura sanitaria era chiamata a rispondere dell'eventuale malpractice in via contrattuale, mentre il sanitario rispondeva in via extracontrattuale (cosiddetta responsabilità aquiliana, da lex Aquilia), per aver commesso con dolo o colpa un fatto illecito che ha cagionato al paziente un danno ingiusto.

Il differente regime di responsabilità è importante ai fini della suddivisione dell'onere probatorio in giudizio e della prescrizione dell'azione spettante al paziente:

  • in caso di responsabilità contrattuale, l'azione di risarcimento si prescrive in dieci anni e il profilo di responsabilità è presunto fino a prova contraria, il cui onere probatorio grava sul soggetto danneggiante che viene chiamato in giudizio, cioè sula struttura sanitaria;
  • in caso di responsabilità extracontrattuale, invece, il termine di prescrizione dell'azione di risarcimento del danno era di cinque anni (salvo che il fatto costituisse reato) e sul danneggiato gravava l'onere di dimostrare uno specifico danno riconducibile a un preciso errore del medico.

Gli anni '80 furono caratterizzati da una giurisprudenza ondivaga, spesso sbilanciata in favore del medico dipendente, con i pazienti che preferivano intentare causa esclusivamente verso la struttura, considerato il regime probatorio “più semplice” riservato dalla responsabilità contrattuale. Negli anni '90 il “favor” nei confronti del sanitario venne meno, tramite l'estensione da parte della giurisprudenza del regime del contatto sociale anche al medico, che iniziò così a rispondere per responsabilità contrattuale, con le conseguenze sopra descritte in materia di termini di prescrizione e di regime probatorio.

L'aumento esponenziale delle cause per responsabilità medica indusse il legislatore a un primo timido intervento legislativo, avvenuto nel 2012 con il cosiddetto decreto Balduzzi, in virtù del quale il medico che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve, rimanendo comunque fermo il principio della responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile.

La legge Gelli-Bianco

Oggi il rischio clinico, sia in materia civile che penale, è disciplinato dalla legge 8 marzo 2017 n. 24 (cosiddetta legge Gelli-Bianco), nata con l'obiettivo di creare un sistema in cui il rischio sanitario sia sottoposto a costante monitoraggio in ambito pubblico e privato.

La legge Gelli – Bianco ha introdotto nel codice penale l'articolo 590 sexies, relativo alla responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario. La norma prevede che se la morte o le lesioni di una persona sono conseguenza dell'esercizio della professione sanitaria, il medico risponderà in caso di colpa, con applicazione di una pena che può arrivare, nei casi più gravi, a cinque anni di reclusione. Se la morte o le lesioni derivano da imperizia, tuttavia, la punibilità del medico è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida ovvero, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle suddette linee guida siano adeguate alla specificità del caso concreto.

L'articolo 590 quinquies del codice penale potrebbe, in un futuro non troppo remoto, essere oggetto di riforma: il parlamento italiano ha iniziato a discutere una proposta di riforma della norma già nell'estate 2023. Secondo il testo in discussione alle Camere “quando dallo svolgimento dell’attività sanitaria derivi, per colpa, una lesione o il decesso del paziente, anche come più grave conseguenza delle lesioni da questi riportate, si applica la pena della reclusione da tre mesi a cinque anni, fatto salvo il caso in cui il professionista sanitario si sia attenuto, nello svolgimento della propria attività, alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; in tale ultima ipotesi, il sanitario andrà perciò esente da responsabilità penale”.

Sotto il profilo civilistico, la legge Gelli-Bianco conferisce rango normativo alla distinzione tra la responsabilità del medico e quella della struttura sanitaria in cui si è verificato il presunto caso di malpractice.

La struttura sanitaria, sia essa pubblica o privata, risponderà delle condotte dolose o colpose dei professionisti sanitari di cui si avvale, anche nell'ipotesi in cui tali soggetti siano stati scelti dal paziente e perfino se non siano dipendenti della struttura stessa; la responsabilità si estende anche alle prestazioni erogate in regime di libera professione intramuraria, nell'ambito delle attività di sperimentazione e ricerca clinica, nei casi in cui il professionista operi in regime di convenzione con il SSN nonché attraverso la telemedicina. La responsabilità della struttura sanitaria, secondo la legge Gelli-Bianco, è di tipo contrattuale; perciò, – come già specificato in precedenza – non sarà il paziente a dover provare la colpa della struttura, bensì sarà quest'ultima a dover dimostrare che non vi è stata colpa nell'esecuzione della prestazione sanitaria.

La responsabilità dell'esercente la professione sanitaria, secondo la riforma Gelli-Bianco, mantiene i connotati della responsabilità extracontrattuale, con onere probatorio a carico del paziente e – in teoria – un minor rischio di condanna per il medico chiamato a giudizio. Il paziente che decida di chiamare in giudizio il medico per un presunto caso di malasanità, sotto il profilo civilistico, dovrà perciò dimostrare che l'evento lesivo lamentato (lesione, morte, aggravamento della patologia o insorgenza di nuove patologie) sia diretta conseguenza della condotta del medico; quest'ultimo dovrà dimostrare l'assenza di colpa, provando di aver adempiuto la prestazione professionale in maniera esatta, ovvero che l'eventuale inesatto adempimento sia dovuto a causa esterne non imputabili al medico, come tali imprevedibili e inevitabili.

Le linee guida e le buone pratiche assistenziali

La legge Gelli-Bianco prevede che l'esercente la professione sanitaria si attenga, salvo le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida (LG) pubblicate sul Sistema Nazionale per le linee guida (SNLG) ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati, da società scientifiche, da associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco ministeriale. In mancanza delle raccomandazioni contenute nelle linee guida, l'esercente la professione sanitaria deve attenersi alle buone pratiche clinico-assistenziali.

L'Istituto Superiore di Sanità definisce le linee guida di pratica clinica come uno strumento di supporto decisionale per il professionista sanitario, avente la finalità di consentire che, fra varie opzioni alternative, il medico adotti quella più vantaggiosa a seguito di un'analisi fra benefici ed effetti indesiderati, tenendo conto dell'esplicita e sistematica valutazione delle prove disponibili, commisurandola alle peculiarità del caso concreto e condividendola – dove possibile – con il paziente o il suo caregiver. L'Institute of Medicine (IOM), invece, definisce le linee guida come raccomandazioni di comportamento clinico che, attraverso una valutazione critica e sistematica delle evidenze, offrono un bilancio di benefici ed effetti sfavorevoli fra più opzioni alternative.

Le Linee Guida pubblicate sul SNLGsono basate su metodologie di produzione riconosciute in ambito internazionale, come il manuale metodologico NICE, la metodologia GRADE e il GRADE Evidence-to-Decision (EtD) framework e le sue estensioni come il GRADE-ADOLOPMENT, la checklist sviluppata da GIN-McMaster.

Il metodo GRADE, in particolare, rappresenta lo standard metodologico di riferimento per la produzione di linee guida, da sempre diffusamente adottato a livello nazionale; esso si basa sul passaggio da una valutazione “studio specifica” a una valutazione “outcome specifica” per giudicare la qualità delle prove, cui concorre la tipologia dello studio unitamente ad altre variabili non presenti nei metodi precedentemente utilizzati.

Le buone pratiche clinico assistenziali vengono identificate dal Centro nazionale per l'eccellenza clinica, la qualità e la sicurezza delle cure (CNEC) a seguito della ricognizione della letteratura biomedica e delle buone pratiche (best practices) riconosciute con meccanismi di consenso fra esperti, a livello nazionale e internazionale. Le buone pratiche cliniche sono disponibili sul sito dell'Istituto Superiore di Sanità in una sezione loro dedicata, dove attualmente è possibile consultare la seguente documentazione:

  • raccomandazioni di buona pratica clinica sull'assistenza al parto nelle donne precesarizzate,
  • valutazione medico-legale del danno biologico nella persona anziana,
  • documento di indirizzo sulla valutazione del processo di sanificazione ambientale nelle strutture ospedaliere e territoriali per il controllo delle infezioni correlate all'assistenza (ICA),
  • linee di indirizzo ad interim per la definizione di criteri e standard per i servizi di sanificazione ambientale in strutture sanitarie e socio-assistenziali;
  • guida alle controindicazioni alla vaccinazione,
  • COVID-19 (Corona Virus Disease),
  • Choosing Wisely edizione italiana,
  • raccomandazioni per la valutazione e gestione del paziente affetto da lesioni da pressione del tallone,
  • conferenza nazionale di consenso delle associazioni che rappresentano i familiari di persone in coma, stato vegetativo, minima coscienza e Gravi Cerebrolesioni Acquisite (GCA).

Le linee guida in materia cardiologica 

Sul Sistema nazionale delle Linee Guida il sanitario può consultare:

  • linee guida in fase di valutazione, giudicate come tali dal CNEC,
  • linee guida in fase di sviluppo, giudicate come tali dal CNEC,
  • linee guida concluse, che hanno cioè superato il processo di valutazione.

In ambito cardiologico, attualmente non vi sono linee guida in fase di valutazione, mentre sono in fase di sviluppo (in progress) le linee guida sulla Gestione dell'arresto cardiaco in ambito extra e intraospedaliero e quelle su Diagnosi e trattamento dello Scompenso Cardiaco Cronico (SCC). Queste ultime, in particolare, prevedono tre raccomandazioni per la diagnosi e il trattamento dello SCC:

Raccomandazione 1 (raccomandazione forte, qualità delle prove bassa. Adottata da NICE NG106)

Si raccomanda che il paziente con scompenso cardiaco cronico venga inserito in un programma di gestione multidisciplinare,

Raccomandazione 2 (raccomandazione forte, qualità delle prove bassa. Adottata da NICE NG106)

Si raccomanda che il team multidisciplinare si occupi di

  • diagnosticare l'insufficienza cardiaca,
  • fornire informazioni alle persone con nuova diagnosi di insufficienza cardiaca,
  • gestire le nuove diagnosi d'insufficienza cardiaca, quelle scompensata o in fase avanzata (classe da III a IV della NYHA),
  • ottimizzare il trattamento,
  • avviare nuovi farmaci che necessitano di supervisione specialistica,
  • continuare a gestire l'insufficienza cardiaca dopo una procedura interventistica come l'impianto di un defibrillatore cardioverter o un dispositivo di resincronizzazione cardiaca,
  • gestire l'insufficienza cardiaca che non risponde al trattamento.

Raccomandazione 3 (raccomandazione forte, qualità delle prove bassa)

Si raccomanda che la composizione del team multidisciplinare preveda:

Core components

  • cardiologo esperto in scompenso cardiaco,
  • infermiere con competenze avanzate in scompenso cardiaco,
  • medico internista/geriatra,
  • medico di medicina generale.

Sulla base delle risorse disponibili e dello stadio dello scompenso:

  • specialista di cure palliative (con coinvolgimento precoce),
  • specialista di medicina riabilitativa,
  • psicologo,
  • assistenza sociale/domiciliare,
  • telemedicina.

All'interno delle linee guida concluse, sempre in materia cardiologica, troviamo solo le linee guida sulla Cardioncologia prodotte dall'Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) in collaborazione con altre sigle. Le linee guida AIOM sono rivolte esclusivamente all'utilizzo medico, ma non ristretto al solo ambito oncologico, e hanno lo scopo di formulare le raccomandazioni per quanto riguarda: la definizione del rischio cardiovascolare e la valutazione cardiologica basale; la prevenzione farmacologica della tossicità da agenti antitumorali; il monitoraggio e il management delle complicanze cardiovascolari durante la terapia antitumorale, con particolare riferimento al trattamento con Antracicline, con Farmaci anti-HER2 e con Farmaci inibitori del VEGF-pathway.

Nell'ambito della cardiologia, la responsabilità medica costituisce un elemento cruciale che richiede una comprensione approfondita e una gestione oculata. Attraverso l'analisi di casi pratici, è possibile acquisire una prospettiva chiara sui rischi connessi alla pratica cardiologica e sui meccanismi legali che intervengono in situazioni di presunta negligenza.

I casi che esamineremo non solo forniscono esempi tangibili di sfide incontrate dai cardiologi nella loro pratica quotidiana, ma offrono anche l'opportunità di comprendere come la legge valuti e affronti situazioni complesse.

Responsabilità penale per mancato ricovero del paziente deceduto per scompenso da endocardite

Un paziente di 44 anni, a seguito di infortunio sul lavoro si reca al P.S., ove dopo gli accertamenti radiologici gli veniva diagnosticato un trauma al piede sinistro con terapia farmacologica da praticare a domicilio. Continuando ad avvertire dolore, il paziente si recava in un altro ospedale, ove gli veniva diagnosticata una ferita infetta dorso piede sinistro con frattura distacco base 1 metatarso ed infrazione secondo e terzo metatarso, notevole edema trattato presso altro nosocomio; i sanitari gli prescrivevano, oltre all'uso di un tutore, la terapia antibiotica e antitrombotica. Dopo undici giorni il paziente ritornava al pronto soccorso con stato febbrile e difficoltà respiratorie, ma dopo gli accertamenti ematici che evidenziavano alterazione della Proteina c reattiva e fortissima alterazione dei D Dimeri, veniva dimesso con diagnosi di sospetto addensamento polmone dx e terapia farmacologica domiciliare. Continuando a stare male, lo stesso giorno il medico curante indirizzava il paziente a visita cardiologica, e il cardiologo formulava la diagnosi di febbre e dispnea in paziente con recente frattura al piede e valori elevati di d dimero, sospetta embolia polmonare, consigliando il ricovero urgente. Una volta arrivato a casa dopo la visita cardiologica, il paziente peggiorava e veniva soccorso dal 118; giunto in ospedale, all'esame obiettivo le condizioni cliniche risultavano in rapido e improvviso peggioramento, con grave stato ipertensivo, iperpiressia 39, segni di stato iniziale di shock verosimilmente settico e dopo un breve ricovero in terapia intensiva il paziente decedeva.

La dottoressa che, in pronto soccorso, ha dimesso il paziente nonostante avesse rilevato un'alterazione della Proteina c reattiva e una fortissima alterazione dei D Dimeri, dieci volte superiore al normale, è stata condannata per malpractice alla pena di mesi nove di reclusione, oltre che al risarcimento del danno nei confronti delle costituite parti civili (i parenti del paziente deceduto). Dal processo è emerso che se il paziente fosse stato ricoverato anziché dimesso dal P.S., si sarebbero anticipate le indagini sulla gestione del caso a livello multi specialistico, con interventi da parte di infettivologo, cardiologo, rianimatore, e che il tempestivo trattamento del paziente in ospedale avrebbe garantito al B.B., in attesa dei risultati delle analisi, il sostegno del circolo e la correzione delle turbe elettrolitiche e metaboliche tipiche della sepsi, con altissima possibilità di sopravvivenza, pari al 75%.

In questo particolare caso ha trovato applicazione il principio per cui è senz'altro configurabile la colpa per imperizia, nell'accertamento della malattia, e per negligenza, per l'omissione delle indagini necessarie, del medico che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di porre in essere la terapia più profittevole per la salute del paziente.

Aneurisma dell'aorta non trattato chirurgicamente nell'immediatezza 

Un diciannovenne viene visitato da un medico specialista in cardiologia, che sulla base della visita, dell'anamnesi e degli esami strumentali – anche pregressi – una notevole ectasia, cioè una dilatazione patologica della radice dell'aorta ascendente con sospetta bicuspidia valvolare. Ad un secondo controllo cardiologico, a distanza di pochi giorni dal primo, il quadro clinico del ragazzo si dimostra in rapido peggioramento; tuttavia, il cardiologo non lo ritiene riconducibile a un'emergenza da trattare con ricovero cardiochirurgico. Il giorno dopo la seconda visita medica il ragazzo va a scuola, durante l'ultima ora di lezione si alza improvvisamente dal banco, si accascia a terra e muore; dall'autopsia la causa del decesso è individuata in un tamponamento cardiaco a seguito di dissezione aortica acuta.

Il Tribunale ha ritenuto sussistente la responsabilità del cardiologo per imprudenza, negligenza e imperizia, scaturente da errori eclatanti del medico, rappresentati dalla mancata valutazione del rapido deterioramento della parete dell’aorta discendente e dell’afflusso di consistenti masse ematiche al pericardio, dalla mancata considerazione non solo della familiarità e del soffio al cuore, obiettivamente rilevabile, ma persino del riferito, persistente, dolore anomalo al petto del ragazzo, dall'omissione di valutazione di una situazione di assoluta emergenza. In particolare il cardiologo, anziché attivare il protocollo d'urgenza, ha consigliato al ragazzo di effettuare un intervento chirurgico in struttura privata del nord Italia ed un approfondimento diagnostico, suggerendogli semplicemente di evitare di fare sforzi e preferire l'ascensore alle scale, ipotizzando erroneamente un’indigestione o una condizione ansiosa del paziente non altrimenti emergente.

Prova da sforzo, infarto e responsabilità del medico “attendista”

Un uomo di circa 60 anni si reca presso una clinica privata per essere sottoposto a esami specialistici in seguito alla recente comparsa di una sintomatologia di verosimile natura cardiovascolare (dispnea, senso di peso toracico). In quella sede l'uomo viene sottoposto a un ECG da sforzo, sospeso dopo soli cinque minuti dall'inizio della prova a causa della comparsa di claudicatio agli arti inferiori. Durante la successiva fase di "recupero", proseguita per circa 6 minuti, era comparso inoltre un "sottoslivellamento" indicativo di una sofferenza ischemica del miocardio, la quale permaneva fino al momento dell'interruzione del monitoraggio ECG- grafico.

Lo specialista cardiologo, nonostante gli evidenti segni di ischemia miocardica in atto e sebbene le diffuse fonti bibliografiche di merito raccomandino in tali casi il prolungamento del monitoraggio ECG-grafico fino al ritorno alle condizioni di base o comunque fino a quando il medico che sovraintende al TE, non lo riterrà necessario in caso di anomalie persistenti, al termine dei sei minuti aveva interrotto il monitoraggio, facendo accomodare il paziente in sala d'attesa. Il paziente, poco dopo il termine del test da sforzo, lamenta un malessere ingravescente, va in arresto cardiaco e muore.

Dall'esame autoptico la causa del decesso è stata individuata in aterosclerosi grave con occlusione del tronco comune dell'arteria coronaria di sinistra da processo fibroateromasico complicato, aspetti di miomalacia del miocardio ventricolare sinistro antera- laterale con rilievo microscopico locale di aree di necrosi coagulativa di tipo ischemico delle fibrocellule cardiache, estesi focolai di miocardiosclerosi, edema e stasi recentissima dei polmoni.

Nel corso del processo civile è emerso che la morte del paziente è ascrivibile alla condotta attendista del sanitario che, in presenza di sintomi evidenti di infarto, non aveva proceduto a cure adeguate, determinando la morte del paziente il quale, diversamente assistito, avrebbe avuto quanto meno maggiori chances di sopravvivenza trattandosi di un paziente di giovane età e asintomatico per patologia cardio-circolatoria; ne è seguita la condanna al risarcimento del danno da malpractice sia in capo alla clinica privata che al sanitario, entrambi manlevati dalle rispettive assicurazioni.

Angioplastica, dissecazione dell'aorta e responsabilità civile

Un paziente, ricoverato per dispnea e improvvisa insorgenza di respiro rantolante, dopo gli accertamenti di rito che accertano uno scompenso cardiaco e un edema polmonare, viene trattata con terapia farmacologica per superare la fase critica, e successivamente sottoposta a ecocardiogramma transtoracico e a coronarografia. Durante l'intervento, tuttavia, insorge un arresto cardiaco refrattario per cui il paziente, dopo vari episodi di arresto cardiocircolatorio, viene trasferita in urgenza, per shock cardiogeno, al reparto di anestesia e rianimazione, dove decede il giorno stesso.

Dal processo emerge che il paziente, al momento dell'intervento, soffriva di svariate comorbilità e che i sanitari avrebbero dovuto valutare con maggior rigore la sua situazione clinica prima di sottoporlo a un'operazione giudicata come invasiva, rischiosa e non necessaria, effettuata peraltro da un'equipe composta da un cardiologo e due infermieri anziché, come previsto dalle linee guida, da due cardiologi interventisti, due infermieri e un tecnico sanitario di radiologia medica.

Dagli atti risulta che il cardiologo durante l'intervento ha compiuto una manovra imperita che ha causato la dissezione dell'aorta del paziente, dal quale è poi scaturito l'aggravarsi delle condizioni cliniche e il decesso. In particolare, la coronarografia diagnostica fu effettuata senza danni per il paziente, ma la dissecazione coronarica seguì all'intervento di rivascolarizzazione con PTCA su ramo intermedio e circonflesso. Dalle evidenze probatorie nel corso del processo è emerso che il paziente, in quelle condizioni, non avrebbe dovuto essere sottoposto a un intervento così invasivo e che i sanitari avrebbero dovuto preferire la strategia della terapia medica.

Il Tribunale, in questo specifico caso, ha ritenuto sussistente la responsabilità per negligenza dei sanitari.

Il cardiologo con un ictus in corso non trattenuto in osservazione dai colleghi di reparto 

Un cardiologo si reca in pronto soccorso lamentando cefalea intensa e ipertensione; viene richiesta consulenza cardiologica, a seguito della quale gli viene somministrato un antidolorifico e un diuretico. Dato che i sintomi regrediscono in maniera molto rapida, i colleghi cardiologi lo dimettono senza trattenere il paziente/medico in osservazione né eseguire ulteriori esami diagnostici.

Il giorno successivo, però, il paziente/medico viene ricoverato in rianimazione presso un altro ospedale, dove a seguito di TAC si evidenzia un ictus in corso a causa del quale viene sottoposto a intervento chirurgico d'urgenza.

Nel corso del giudizio emerge che i sanitari che hanno soccorso il medico la prima volta non hanno agito con la dovuta diligenza e hanno emesso un'anamnesi scorretta, poiché hanno colposamente sottovalutato i sintomi del paziente/medico, spariti in poco tempo a seguito della somministrazione dei farmaci. Una corretta valutazione dei sintomi avrebbe dovuto invece indurre i sanitari a svolgere ulteriori accertamenti, dai quali sarebbe stata individuata l'emorragia subaracnoidea in atto e il paziente sarebbe stato subito sottoposto a intervento chirurgico, scongiurando così l'evento grave verificatosi il giorno successivo e i danni neurologici da esso derivati. In particolare, in questo caso è stata ritenuta sussistente la responsabilità dei medici anche in virtù della difesa svolta in giudizio dall'azienda ospedaliera, che ha di fatto riconosciuto l'errore dei propri dipendenti.

Come difendersi dal rischio di essere sottoposti a processo per malpractice

Il rischio di essere chiamati a rispondere in giudizio – civilmente o penalmente – per responsabilità medica non deve diventare, per il sanitario, un chiodo fisso che lo spinge a esercitare la professione sulla difensiva. La normativa, come abbiamo visto, è comunque abbastanza favorevole al medico sia in termini di onere probatorio che di prescrizione.

Affinché il medico possa esercitare la professione in tranquillità, nel rispetto del giuramento prestato, con competenza e diligenza, è bene che si faccia assistere, anche in via preventiva, da esperti del settore responsabilità professionale, come quelli messi a disposizione da Consulcesi.

Di: Manuela Calautti, avvocato

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