In Svezia si sta affermando un fenomeno inedito e controverso: la “de-diagnosi” per autismo e ADHD. Sempre più adulti chiedono di rimuovere le etichette diagnostiche ricevute durante l’infanzia o l’adolescenza, sostenendo che non rappresentano più la loro identità o condizione attuale.
Secondo un recente studio pubblicato sul British Medical Journal (BMJ), circa un centinaio di pazienti adulti svedesi ha preso parte a un progetto pilota che potrebbe aprire la strada a veri e propri servizi ufficiali di “de-diagnosi” nel Paese. L’obiettivo? Permettere alle persone di riconsiderare, e in alcuni casi rimuovere, una diagnosi che oggi sentono come un ostacolo.
Cos’è la “de-diagnosi”?
Il termine “de-diagnosi” indica un processo clinico volto a valutare la persistenza o la validità di una diagnosi di disturbo neuroevolutivo, come autismo o ADHD, nel tempo.
Non si tratta semplicemente di “cancellare” una diagnosi dai registri, ma di verificare — attraverso test psicologici e colloqui clinici — se le caratteristiche e i criteri diagnostici originari siano ancora presenti.
Come spiega lo psicologo Sebastian Lundström, uno dei ricercatori coinvolti nello studio, l’interesse per questo nuovo servizio nasce dal crescente numero di adulti che, dopo aver ricevuto una diagnosi in età infantile, scoprono che essa comporta limitazioni nella vita civile o lavorativa.
In Svezia, infatti, una diagnosi di ADHD o autismo può influenzare l’accesso a determinate professioni (come quella militare o ferroviaria) e richiede certificazioni mediche aggiuntive per ottenere la patente di guida.
Le ragioni dietro la richiesta di “rimozione”
Molti partecipanti allo studio riferiscono di sentirsi etichettati o stigmatizzati dalla diagnosi, più che aiutati. Alcuni sostengono di aver superato nel tempo le difficoltà associate ai disturbi, o di aver sviluppato strategie compensative tali da non rispecchiare più i criteri clinici originari.
Lundström ha sottolineato, durante la Preventing Overdiagnosis Conference di Oxford, che negli ultimi anni in Svezia si è assistito a un forte aumento delle diagnosi di neurodivergenze, spesso assegnate “da clinici ben intenzionati”, ma con una tendenza a diventare etichette permanenti.
Secondo il ricercatore, “il problema è che queste diagnosi restano nei registri e continuano a influenzare la vita delle persone anche quando non sono più clinicamente rilevanti”.
Un dibattito aperto tra clinici e pazienti
Il tema della de-diagnosi sta dividendo la comunità medica e i gruppi di pazienti. Da un lato, molti professionisti ritengono che il fenomeno possa rappresentare un passo verso una medicina più personalizzata, in cui l’identità diagnostica non sia fissa ma adattabile all’evoluzione individuale.
Dall’altro, c’è chi teme che la de-diagnosi possa minimizzare la realtà dei disturbi neuroevolutivi, rischiando di far perdere accesso a servizi, supporti educativi o benefici sociali.
Le associazioni di persone autistiche e con ADHD ricordano che una diagnosi non è un’etichetta negativa, ma un mezzo per comprendere se stessi e ottenere sostegno.
Leggi anche
Riflessioni e implicazioni sociali
La questione solleva interrogativi profondi: è possibile “non essere più” autistici o con ADHD? Oppure la de-diagnosi è soprattutto un modo per liberarsi dallo stigma e dalle barriere sociali che una diagnosi comporta?
In un periodo in cui la consapevolezza sulla neurodiversità è in crescita, la Svezia diventa un laboratorio sociale unico. Il dibattito coinvolge non solo medici e psicologi, ma anche filosofi, giuristi e cittadini comuni, chiamati a ridefinire il rapporto tra identità, salute mentale e libertà personale.
Uno sguardo al futuro
Se il progetto pilota darà esiti positivi, i servizi di de-diagnosi potrebbero essere introdotti in diverse cliniche svedesi nei prossimi mesi. Intanto, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, la proposta suscita curiosità ma anche scetticismo: i professionisti restano divisi sull’opportunità di replicare un modello simile.
Quel che è certo è che la discussione sulla de-diagnosi tocca un punto cruciale della psichiatria contemporanea: quanto una diagnosi definisce — o limita — una persona? E quanto spazio dovremmo lasciare alla possibilità di ridefinirsi, anche al di là di un’etichetta medica?