Con la recente sentenza n. 15076/2025, la Corte di Cassazione Sez. Penale ha avuto modo di declinare, in modo chiaro, il contenuto degli obblighi in capo al personale infermieristico in servizio di Pronto Soccorso, delineando specificatamente il perimetro delle prestazioni a cui è tenuto al momento dell’accettazione di un paziente in PS e nella fase di compilazione della scheda di accesso, con relativo riflesso sulla valutazione della situazione concreta ai fini di una corretta individuazione degli indici rilevatori utili all’assegnazione del codice più corretto.
L’insufficiente raccolta dei dati, l’omesso monitoraggio dei parametri vitali durante l’attesa e l’erronea valutazione della caso, comportavano l’assegnazione di un codice di intervento ad urgenza differita, precludendo così l’intervento tempestivo del medico, da cui il decesso del paziente.
Una paziente asmatica muore in PS: come si è arrivati al codice verde
La vicenda giunta all’esame della sezione Penale della Cassazione concerne l’accesso di una paziente al PS siccome in preda ad un forte attacco di asma, di cui era affetta da tempo.
Accompagnata in sede a rotelle, veniva accolta al triage dall’infermiera in servizio che le sottoponeva alcune domande, raccogliendo le relative risposte, con conseguente assegnazione del codice di accesso verde (indice di differibilità) e relativo trasferimento in altra stanza, in attesa di venir visita dal medico di turno, già impegnato in precedente intervento.
Dopo circa tre quarti d’ora, senza che le venisse praticato alcun ulteriore controllo dello stato di salute, la paziente veniva raggiunta dal sanitario che, accortosi della gravità del quadro clinico complessivo, trasferiva la paziente nella shock-room ma, nonostante ciò, non riusciva ad impedire il decesso della donna, che avveniva poco dopo per arresto cardio-respiratorio.
Appello: reato prescritto ma condanna civile per l’infermiera
Gravata in appello la decisione emessa dal Tribunale, che aveva condannato il sanitario per omicidio colposo ex art. 589 c.p., la Corte dichiarava prescritto il reato ascritto, limitandosi a confermare la condanna dell’infermiera professionale, in solido con l’azienda, al risarcimento del danno alle parti civili, imputando alla stessa di non aver correttamente apprezzato, durante il triage, le condizioni cliniche della paziente, assegnandole un codice di accesso ad urgenza differita, così cagionando quel ritardo di intervento che determinava il decesso per arresto cardio respiratorio dovuto ad "insufficienza respiratoria acuta da attacco asmatico di tipo 2".
Più specificatamente, veniva contestata la mancata osservanza delle linee-guida previste per la fase di triage, avendo descritto nella scheda soltanto alcuni parametri vitali, omettendone altri decisivi e sottovalutando la gravità della riscontrata insufficienza respiratoria (peraltro aggravata dal fatto che si trattava di paziente asmatica), senza infine occuparsi di monitorare costantemente l’evolversi della situazione che, se verificata, avrebbe consentito di intervenire tempestivamente, evitando il decesso della paziente.
La Cassazione entra nel merito: la colpa dell’infermiera è grave
La sentenza di appello è stata quindi impugnata dalla difesa dell’infermiera e dell’azienda sanitaria, in primis deducendo che, contrariamente a quanto affermato dal giudici di merito, l’imputata avrebbe correttamente seguito le linee guida in materia di triage pubblicate dalla Conferenza Stato-Regioni al momento dei fatti, non potendosi altresì onerare il personale infermieristico della formulazione della diagnosi.
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Obblighi dell’infermiere in triage
Nel rispondere alla censura, la Corte ha richiamato, ratione temporis, l'art. 3, comma 1, del decreto legge Balduzzi, ritenendolo correttamente applicato nella parte in cui limita la responsabilità degli esercenti la professione sanitaria ai soli casi di colpa grave, qualora si attengano alle linee guida ed alle buone pratiche della comunità scientifica.
In conformità al consolidato orientamento giurisprudenziale, è stata infatti parametrata la gravità della colpa proprio con riferimento alle linee guida esistenti in quel momento, essendo emerso, nello specifico, che l’infermiera aveva omesso di riportare in modo completo la descrizione delle condizioni fisiche della paziente e di valutare complessivamente l'urgenza del caso rispetto al quadro sintomatologico accertato.
Obbligo di informazione
Proprio le linea guida applicabili in quel momento stabilivano che “il triage deve essere svolto da un infermiere esperto e specificatamente formato, sempre presente nella zona di accoglimento del pronto soccorso ed in grado di considerare i segni e sintomi del paziente per identificare condizioni potenzialmente pericolose per la vita e determinare un codice di gravità per ciascun paziente al fine di stabilire le priorità di accesso alla visita medica", aggiungendo che "l'attività del triage si articola in: accoglienza: raccolta di dati, di eventuale documentazione medica, di informazioni da parte di familiari e/o soccorritori, rilevamento parametri vitali e registrazione".
Obbligo di valutazione
Da quanto sopra, la Corte ha quindi declinato il perimetro di attività a carico del personale infermieristico che, in questi casi, è tenuto non soltanto alla completa raccolta di dati, con rilevazione dei parametri vitali, ma anche della valutazione del quadro sintomatologico riscontrato, alla luce delle indicazioni ricevute dalla paziente e dai suoi familiari.
Ed in ciò risiede il punto decisivo: spetta proprio all’infermiere in servizio al triage esprimere, alla luce della situazione obbiettivamente rilevata, il giudizio sullo stato clinico del paziente, da ciò derivando l’esatta assegnazione del codice di accesso.
Anziché limitarsi a raccogliere alcuni dati, confidando oltremodo nel positivo riscontro derivante dal parametro di ossigenazione del sangue, l’infermiera avrebbe quindi dovuto annotare, in modo più attento ed accurato, sulla scheda dì triage tutte le ulteriori informazioni disponibili (tempo di insorgenza dell'attacco asmatico, eventuali allergie e patologie pregresse nonché dati relativi a cibi o farmaci assunti), che avrebbero consentito una migliore valutazione del caso, mettendone in evidenza tutta la gravità.
Obbligo di monitoraggio
L’ulteriore profilo di colpa grave è stato poi rinvenuto nel mancato rispetto del dovere di monitoraggio dell’infermiera che, se correttamente effettuato, le avrebbe permesso di rendersi conto del progressivo peggioramento della situazione, inducendola a richiedere al medico un immediato intervento.
Il personale infermieristico – ricorda la Corte – “è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente, gravando sullo stesso un obbligo di assistenza effettiva e continuativa del soggetto ricoverato, atta a fornire tempestivamente al medico di guardia un quadro preciso delle condizioni cliniche ed orientarlo verso le più adeguate scelte terapeutiche”.
Ne consegue pertanto come gravi proprio sul personale infermieristico di PS l’obbligo di monitorare di continuo lo stato dei pazienti, così da poter intercettare potenziali rischi per la salute degli stessi ed approntare, laddove necessario, le necessarie misure d’urgenza (allertando i sanitari anche di altri reparti) per consentire un intervento tempestivo.
Tutti gli errori commessi e cosa insegna questa sentenza agli operatori sanitari
Il mancato aggiornamento dei parametri vitali della paziente è stato quindi individuato quale ulteriore profilo di colpa a carico dell’infermiera, aggiunto a quello relativo alla mancata acquisizione di tutti i dati informativi utili ed all’erronea valutazione del caso, con conseguente attribuzione di un codice di accesso che, non adeguato alla situazione concreta, ha impedito una corretta identificazione dell’urgenza, pregiudicando la tempestività dell’intervento che avrebbe consentito di evitare il decesso.