Buoni pasto e turni lunghi: cosa dice la legge e perché non sempre si pagano (o si tassano)

Il personale sanitario ha diritto al buono pasto se lavora oltre sei ore e non può usufruire della mensa. Ma la questione si complica quando si parla di tassazione. Una recente sentenza fa chiarezza sul valore assistenziale e non retributivo di queste indennità.

Sommario

  1. L’inquadramento giuridico del diritto ai buoni pasto
  2. Buoni pasto, l’orientamento giurisprudenziale
  3. Quando matura il diritto ai buoni pasto?
  4. La tassazione del buono pasto

Siamo ancora nel pieno del contenzioso sul tema del riconoscimento del diritto ai buoni pasto per il personale sanitario impegnato in turni superiori alle 6 ore continuative, tanti si calcolano i ricorsi attualmente pendenti davanti ai tribunali nazionali, che nel contempo si discute anche sulla tassabilità o meno degli importi liquidati ai sanitari vittoriosi.

Proprio di recente sulla questione è intervenuto il Tribunale di Messina (sent. n. 1473/25) che, respingendo l’impugnativa presentata da un’azienda sanitaria avverso la notifica del precetto con cui gli veniva richiesto il rimborso della trattenuta applicata sul presupposto che l’indennità sostitutiva di mensa fosse interamente soggetta a tassazione fiscale ai fini IRPEF, ha motivatamente espresso il suo dissenso per la scelta operata dall’amministrazione.

L’inquadramento giuridico del diritto ai buoni pasto

La questione relativa ai buoni pasto nel pubblico impiego privatizzato rientra, a buon diritto, nell’ambito della disciplina  normativa di matrice comunitaria relativa all’organizzazione dell’orario di lavoro, integrata dalle previsioni nazionali e delle specifiche indicazioni contenute nei contratti collettivi applicabili al caso di specie.

Nello specifico, viene in evidenza il disposto di cui all’art. 8 del D. Lgs. n. 66/2003 che attribuisce al lavoratore, impegnato oltre le 6 ore continuativa, di godere di una pausa per il ristoro delle energie psico-fisiche e per l’eventuale consumazione del pasto.

Per il comparto Sanità, la disciplina di questo diritto deve la sua genesi all’applicazione dell’art. 29 del CCNL del 20/09/2001 che recita: “Qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto, secondo la disciplina di cui all'art. 29 del CCNL integrativo del 20/9/2001 e all'art.4 del CCNL del 31/7/2009”.

Buoni pasto, l’orientamento giurisprudenziale

Sul fronte del riconoscimento del diritto, può ormai ritenersi acquisito il principio per cui non rientra nella discrezionalità amministrativa decidere se concedere o meno l’accesso del personale dipendente al beneficio del servizio mensa, eventualmente con modalità alternative (rectius, erogando i cd. “buoni pasto”), quanto piuttosto quello previo di stabilire, in funzione delle risorse organizzative ed economiche disponibili, quale soluzione adottare.

Se è vero allora che le Aziende mantengono piena autonomia nel decidere se introdurre o meno la mensa aziendale nella loro organizzazione, ciò non incide minimamente sul dovere, comunque a loro carico, di garantire al personale dipendente il pieno e legittimo esercizio del diritto al riposo, che include anche la possibilità di fruire di un pasto eventualmente beneficiando di previste modalità sostitutive.

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Quando matura il diritto ai buoni pasto?

I requisiti per poter richiedere il godimento del buono pasto per il personale sanitario del pubblico impiego privatizzato sono quindi i seguenti:

  • orario di lavoro giornaliero eccedente le sei ore
  • impossibilità di fruizione del servizio mensa o di un altro servizio sostitutivo presso la sede di lavoro

Si aggiunga altresì che, oltre all’assenza del servizio mensa, assumono valore ai fini del riconoscimento del diritto anche quelle situazioni (e non sono poche sul territorio nazionale) in cui, ancorchè disponibile, vi è la concreta impossibilità per il sanitario dipendente di accedervi per consumare il pasto al di fuori dell’orario di lavoro e nel rispetto del termine temporale di 30 minuti concesso.

A tal proposito, occorre poi ricordare che non si può obiettare, come ancora accade in certe situazioni, che il personale non avrebbe diritto al buono sostitutivo, potendo fruire della mensa prima dell'inizio del turno o dopo di esso, avendo la stessa giurisprudenza più volte ribadito che la consumazione del pasto è strettamente collegata alla pausa di lavoro e deve quindi avvenire nel corso della stessa, proprio per consentire il recupero delle energie psicofisiche spese durante il turno.

La tassazione del buono pasto

Secondo la giurisprudenza di legittimità, nel pubblico impiego privatizzato il diritto al buono pasto non ha funzione retributiva, ma rappresenta unicamente un’agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale che, rientrando nell’organizzazione del lavoro, è finalizzata a conciliare le esigenze lavorative del servizio con quelle personali del dipendente (Cass. n. 22478/24, Cass. n.  23255/2023, Cass.  n. 9206/2023, Cass. n. 5547/21), che peraltro condividono profili fondamentali tutelati a livello costituzionale (Cons. Stato, sez. IV, n. 2115/2018).

Nel caso giunto all’esame del Tribunale siciliano, la parte datoriale aveva applicato la trattenuta fiscale sugli importi riconosciuti al sanitario a titolo di risarcimento per la mancata erogazione dei buoni pasto, considerandoli alle stessa stregua di un mancato guadagno (lucro cessante), come tale assoggettati a tassazione ai sensi delle disposizioni del TUIR.

In buona sostanza, la somma liquidata al lavoratore è stata equiparata a quelle indennità percepite a titolo di risarcimento di danni che, andando a compensare la  perdita di un reddito, sono state fatte rientrare nella medesima categoria di quelli sostituiti o perduti.

Il giudice ha però ricordato che, proprio alla luce delle indicazioni ricevute dal supremo collegio, il diritto riconosciuto era volto ad indennizzare il lavoratore dalla perdita subita per la mancata erogazione dei buoni pasto (danno emergente), che non riveste alcuna retributiva, bensì avendo carattere meramente assistenziale.

Si è poi rammentato che proprio l’art. 51 del TUIR dispone che il “reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro”. Ma al secondo comma, lettera c), si  esclude dalla formazione del reddito “le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro nonché quelle in mense organizzate direttamente dal datore di lavoro o gestite da terzi; le prestazioni sostitutive delle somministrazioni di vitto fino all'importo complessivo giornaliero di euro 4, aumentato a euro 8 nel caso in cui le stesse siano rese in forma elettronica; le indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte agli addetti ai cantieri edili, ad altre strutture lavorative a carattere temporaneo o ad unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione fino all'importo complessivo giornaliero di euro 5,29”.

Pertanto, sia in considerazione della natura dell’indennizzo riconosciuto sia per l’importo stesso attribuito, pari ad euro 4,13 di indennizzo per ciascun giorno, ne consegue come la somma complessivamente liquidata al sanitario dipendente non avrebbe dovuto essere sottoposta ad imposta, confermandosi in tal modo la legittimità del precetto notificato dal lavoratore.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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