La signora A si sottopone ad un intervento di chirurgia estetica presso la casa di cura privata B Srl per un intervento di aspirazione del tessuto adiposo dalla zona antero-mediale degli arti superiori, che viene affidato alle sapienti mani del chirurgo plastico dottor C.
Nonostante l'intervento non fosse caratterizzato da particolari problematiche e si presentasse come routinario, all'esito non si riesce a raggiungere il risultato estetico desiderato dalla signora A, che presenta – alla rimozione dei bendaggi – gonfiori e tumefazioni diffuse su entrambe le braccia, per la risoluzione dei quali la dottoressa C consiglia alla signora A di sottoporsi a un nuovo intervento estetico risolutivo, da eseguirsi – questa volta – presso un'altra clinica, la casa di cura D.
La signora A accetta di sottoporsi al secondo intervento presso la casa di cura D, ma al momento di rimuovere i bendaggi e i punti della seconda operazione, entrambe le braccia presentavano dei voluminosi accumuli di adipe distribuiti disarmonicamente su entrambi gli arti.
Non ritenendosi soddisfatta né del primo né del secondo intervento, la signora A agisce nei confronti del dottor C e delle due case di cura, chiedendo al giudice civile di pronunciare a suo favore:
- la risoluzione del contratto di prestazioni estetico sanitarie,
- la condanna del dottor B e delle due case di cura al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, patiti nel corso di questa singolare vicenda.
Quando si può chiedere un risarcimento per chirurgia estetica: cosa dice la legge Gelli-Bianco
Il danno derivante dall'attività sanitaria, sia per le richieste risarcitorie formulate nei confronti del medico che della struttura ospedaliera, è disciplinato dalla legge Gelli Bianco, che prevede – in ambito civilistico – un regime di doppia responsabilità:
- per la struttura sanitaria responsabilità contrattuale,
- per l'esercente la professione sanitaria responsabilità extracontrattuale.
La differenza tra queste due tipologie di responsabilità, oltre nel fatto che la prima deriva da un contratto instaurato tra il paziente e la struttura mentre la seconda deriva da un'attività di natura extracontrattuale, risiede nell'onere probatorio che grava sulle parti e nel diverso regime della prescrizione.
Difatti, la responsabilità contrattuale presuppone che sia la struttura sanitaria a dover dimostrare che il danno subito dal paziente non deriva da condotte legate ad essa o ai medici ivi operanti, mentre la responsabilità extracontrattuale richiede che sia il paziente a provare il danno subito e il nesso causale tra la condotta tenuta dal professionista sanitario e il danno riportato.
Sono differenti, come dicevamo, anche i termini prescrizionali, articolati in:
- dieci anni per la responsabilità contrattuale,
- cinque anni per la responsabilità extracontrattuale.
La struttura sanitaria risponde delle prestazioni sanitarie svolte da qualunque professionista operante al suo interno, anche se lo fa in regime di libera professione intramuraria, attività di sperimentazione e ricerca clinica, convenzione con il SSN o telemedicina.
La struttura sanitaria, per potersi liberare dalla presunzione di responsabilità a suo carico, deve dimostrare che l'inadempimento o il ritardo nella prestazione sono stati determinati da causa non ad essa imputabile.
Nella particolare materia della chirurgia estetica, bisogna interrogarsi sulla natura dell'obbligazione che il chirurgo assume nei confronti del paziente: si tratta di un'obbligazione di mezzi o di risultato? In altre parole, il chirurgo si obbliga a raggiungere un determinato risultato estetico ben preciso e determinato, oppure si obbliga ad adempiere una prestazione con la propria opera professionale, adottando tutte le conoscenze e tutti i mezzi a sua disposizione, senza però fornire alcuna garanzia sulla riuscita dell'intervento?
L'orientamento prevalente in giurisprudenza è quello che configura l'obbligazione del chirurgo estetico come obbligazione di mezzi, nel senso che il chirurgo non risponde del mancato raggiungimento del risultato che era atteso dal cliente e che non può essere da lui assicurato, salvo ovviamente casi di negligenza o imperizia e fermo restando l'obbligo del professionista di prospettare al paziente, in maniera realistica, la possibilità di ottenere, effettivamente, il risultato perseguito.
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Perché la paziente ha perso la causa: nessuna prova del danno, del contratto o del risultato promesso
La domanda della signora A è stata rigettata integralmente sia in primo grado che in appello, poiché i giudici hanno ritenuto che la paziente non abbia offerto prova né del danno subito né del nesso di causalità tra l'inestetismo riportato e la condotta professionale del dottor B.
In sede di giudizio di merito, infatti, la paziente non ha fornito alcuna prova documentale che dimostrasse il contenuto del contratto sottoscritto con la struttura sanitaria e/o con il dottor B, l'avvenuto pagamento della prestazione, né ha prodotto documentazione clinica o fotografica pre e post operatoria che potesse consentire ai giudici di accertare che il dottor C si fosse impegnato per realizzare il risultato estetico sperato.
Dalla carenza probatoria dei giudizi di primo e secondo grado è derivata l'inammissibilità del ricorso anche dinanzi la Corte di Cassazione, che peraltro ha specificato come nel caso di sentenza “doppia conforme” (cioè conforme sia in primo che in secondo grado per gli stessi motivi) il ricorso non può essere ammesso se non vengono spiegate le ragioni di fatto che sono poste alla base della decisione di primo grado e di secondo grado e non si dimostra che esse sono tra loro diverse.
Secondo la Cassazione quando si instaura un'azione per responsabilità medica il paziente ha l'onere di provare il nesso causale tra il danno estetico lamentato e gli interventi chirurgici eseguiti, nonché quello di fornire al Tribunale idonea e adeguata documentazione circa lo stato iniziale del suo corpo prima e dopo l'intervento, in modo da permettere un confronto delle due situazioni. Per poter affermare che il chirurgo estetico abbia raggiunto un'obbligazione di risultato con il chirurgo deve essere supportata da prove adeguate, tra cui la documentazione del contratto di prestazione sanitaria e il pagamento della prestazione, che dimostrino che il medico si fosse impegnato in maniera formale al raggiungimento di un determinato risultato estetico.
Non avendo provato nulla, la paziente è stata condannata al pagamento delle spese di lite nonchè al risarcimento del danno da lite temeraria, proprio perché non ha provato in giudizio la sua domanda, con la condanna a versare 1.250 euro in favore della cassa delle ammende.