Disabilità e lavoro: anche i caregiver hanno diritto al turno fisso

Secondo la Corte di Giustizia europea, chi assiste un familiare disabile deve poter contare su condizioni di lavoro adeguate. Il caso di una lavoratrice italiana riaccende il dibattito sulla tutela dei caregiver e sull’obbligo di accomodamenti ragionevoli.

Sommario

  1. Il quadro normativo: cosa dice la legge su lavoro e disabilità
  2. La sentenza europea che cambia le tutele per i caregiver
  3. Cosa devono fare le aziende: accomodamenti e soluzioni ragionevoli

La tutela della disabilità passa non soltanto per le garanzie riconosciute, dalla legge, direttamente all’interessato, ma anche da forme di adeguamento del lavoro a favore di coloro che, di fatto, sono quotidianamente impegnati ad occuparsi della cura e della salute del disabile.

Si registra, in diverse occasioni e soprattutto nell’ambito dell’impiego in Sanità, l’allarme di chi subisce sul posto di lavoro forme di discriminazione (cd. “discriminazione indiretta per associazione”), non ricevendo, malgrado l’impegno che deve dedicare al proprio congiunto disabile, alcun adattamento delle proprie condizioni di lavoro ovvero, in altri caso, le ottiene, ma soltanto con modalità temporanee e precarie.

È il caso che, proprio di recente, è stato delibato dalla Corte di Giustizia Europea (sentenza 11/09/2025 C-38/24) che, chiamata ad esprimersi sulla situazione di una lavoratrice italiana che lamentava la mancata assegnazione definitiva di un orario fisso, in luogo di quello su turni ed alternato praticato dagli altri colleghi, così da consentirle di occuparsi del figlio gravemente disabile, ha ritenuto tale condotta discriminatoria e comunque contraria agli obiettivi perseguiti  dalla direttiva quadro 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Il quadro normativo: cosa dice la legge su lavoro e disabilità

La Convenzione dell’ONU, all’art. 2 commi terzo e quarto, intende per “discriminazione fondata sulla disabilità si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole”.

Nello specifico del diritto dell’Unione, la direttiva 2000/78/CE mira, con il suo art. 1, ad impedire ogni forma di discriminazione, diretta o indiretta, in ambito lavorativo basata su religione, convinzioni personali,  handicap, l’età o tendenze sessuali.

La discriminazione “indiretta” si realizza, secondo la norma, quando “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone”.

L’articolo 5 della direttiva 2000/78 prevede, infine, che “per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».

Con l’adozione del d. lgs. n. 216/2003 hanno quindi trovato applicazione, nel diritto nazionale, le previsioni contenute nella citata direttiva 2000/78/CE, per cui, segnatamente all’art. 3 comma 3 bis, si stabilisce che “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare soluzioni ragionevoli, quali definite dalla Convenzione [dell’ONU], ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18 nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”.

Successivamente, ad ulteriore sostegno di queste particolari situazioni, è stato adottato il Codice delle pari opportunità, che rinviene una forma di discriminazione in qualsiasi “trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera”.

La sentenza europea che cambia le tutele per i caregiver

La questione principale portata all’esame della Corte europea era quindi incentrata sull’inclusione o meno del lavoratore congiunto, che assiste il figlio disabile, nell’ambito delle tutele previste dalla direttiva 2000/78, ovverossia se anch’egli possa essere oggetto di comportamenti datoriali discriminatori assunti in modo indiretto.

La risposta è stata assolutamente chiara nel ribadire che le forme di tutela contenute nella direttiva 2000/78 e, in particolare, il suo articolo 1 e il suo articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b), letti alla luce degli articoli 21, 24 e 26 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione nonché degli articoli 2, 5 e 7 della Convenzione dell’ONU, si applicano a qualsiasi forma di discriminazione, dovendola intendere estesa anche al lavoratore che, pur non essendo egli stesso disabile, risulti comunque discriminato sul posto di lavoro “a causa dell’assistenza che fornisce al figlio affetto da una disabilità che consente a quest’ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono”.

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Cosa devono fare le aziende: accomodamenti e soluzioni ragionevoli

Alla luce della decisione che precede, risulta quindi prioritaria l’esigenza di tutelare i diritti delle persone disabili, soprattutto allorchè si tratti di minori, andando a rafforzare la posizione non soltanto del diretto interessato, ma anche dei genitori, che non dovranno incorrere in un trattamento lavorativo pregiudizievole a cagione dei concomitanti impegni a cui sono chiamati per la cura ed il sostegno del loro figlio disabile.

Al datore di lavoro è quindi imposto di ricercare nell’ambito delle soluzioni praticabili, quelle più ragionevoli a consentire al lavoratore, che si trovi in tali situazioni, di poter prestare quella assistenza necessaria al figlio disabile, a condizione che ciò non si traduca in un onere del tutto sproporzionato rispetto all’organizzazione lavorativa.

Pertanto - secondo la Corte - la riduzione dell’orario di lavoro ovvero, in presenza di determinate condizioni, la riassegnazione ad altro posto di lavoro rientra nell’ambito delle soluzioni ragionevoli, semprecchè non implichino un impegno eccessivo per il datore di lavoro a fronte delle risorse economiche dell’impresa e della possibilità di accedere a fondi pubblici o altre forme di sovvenzione.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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