Turno in reparto di ginecologia: il medico più giovane è comunque responsabile

Il ginecologo più giovane ha tutte le conoscenze e le competenze per valutare, da solo, le condizioni della paziente: se il medico più anziano non si accorge del grave quadro medico di una paziente, il più giovane deve intervenire, anche se la paziente “è sempre stata in cura” dal medico più vecchio, perchè quando è di turno in reparto è lui il responsabile della salute di quella persona.

Sommario

  1. Una catena di errori e ritardi: il dramma della signora A dopo il cesareo
  2. Cosa dice la legge: le responsabilità penali e i limiti dell’imperizia medica
  3. La sentenza definitiva: condanne e risarcimenti per la morte evitabile

La signora A è incinta ed è in cura presso il ginecologo dott. B, in servizio presso il reparto di ostetricia e ginecologia del locale ospedale. La donna viene sottoposta, nel giorno prefissato, a parto cesareo dal dottor B quale primo operatore e dal dottor C quale secondo operatore.

Subito dopo l'intervento, viene prescritto un emocromo di controllo; il dotto B, nel frattempo, si allontana dall'ospedale. Gli esiti delle analisi arrivano in reparto alle ore 2:21 e rilevano: emoglobina pari a 7,6, ematocrito pari a 23,7%.

Il dottor C, sulla scorta di tali risultati, ordina di tenere sotto osservazione la signora A, di ripetere gli esami dopo 4 ore e di essere avvisato in caso di necessità.

Una catena di errori e ritardi: il dramma della signora A dopo il cesareo

Alle ore 3:30 le condizioni della signora A si aggravano, tant'è che il dottor C, riscontrando uno stato di shock, distress respiratorio, sindrome dispnoica e sudorazione profusa, richiede l'intervento urgente dell'anestesista di turno, il dottor D, il quale trova la paziente pallida, sudata, in stato di agitazione psicomotoria, ipotesa (70/40), tachicardica (145), con diuresi contratta e buona saturazione nonché notevolmente iperglicemica (513 mg/dc), tanto da necessitare della somministrazione di insulina.

Data la gravità della situazione, l'anestesista dottor D predispone il trasferimento della paziente in sala travaglio, ove la stessa viene intubata e sottoposta a un EGA da cui risulta un valore di emoglobina pari a 4,5, tale da rendere necessaria una trasfusione urgente inizialmente con due sacche di sangue e successivamente con altre otto.

Nel frattempo il dottor C procede a contattare il dottor B, che ha eseguito il cesareo e presso cui la signora è sempre stata in cura, informandolo della situazione; il dottor B si precipita in ospedale, giungendovi alle ore 4.20 circa.

Preso atto della situazione il dottor B decide di non rioperare la paziente, optando per un'ecografia all'esito della quale esclude la presenza di sangue in addome; conseguentemente, esclude il dottor B esclude definitivamente la necessità di un intervento chirurgico.

Alle ore 6.45 subentra una seconda crisi per la signora A, con bradicardia e desaturazione; gli anestesisti richiedono l'intervento urgente del primario di chirurgia, dottor E, il quale alle ore 7.40 sottopone la signora A ad intervento chirurgico rinvenendo abbondante sangue in cavità addominale tanto da posizionare tappi compressi nello spazio prevescicale ed applicare punti di sutura a tutto spessore a livello del decorso delle arterie uterine e sulla breccia chirurgica.

L'intervento, tuttavia, non riesce a rimediare in maniera efficace alle disperate condizioni della signora A, che erano già gravemente compromesse, tant'è che la paziente alle ore 09:30 muore.

I familiari della signora A presentano una denuncia querela nei confronti di tutti i medici che hanno avuto in cura la puerpera.

All'esito delle indagini preliminari, viene formulata l'imputazione di omicidio colposo nei confronti del dottor B (il ginecologo che aveva in cura la paziente e che l'ha sottoposta a cesareo) e del dottor C (primo operatore nell'intervento di cesareo).

Cosa dice la legge: le responsabilità penali e i limiti dell’imperizia medica

La responsabilità penale del medico è disciplinata dal combinato disposto degli articoli 589, 590 e 590 sexies del codice penale: se, nell'esercizio della professione sanitaria, il professionista cagiona la morte o delle lesioni al paziente, rischia una pena che va da un minimo di tre anni (pena minima per le lesioni) a cinque anni di reclusione (pena massima prevista per l'omicidio colposo, salvo particolari circostanze in cui la pena può aumentare fino a dieci anni).

L'art. 590 sexies del codice penale, tuttavia, prevede una particolare causa di giustificazione per il professionista sanitario: difatti, qualora la morte o le lesioni del paziente si siano verificati a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

Applicando la richiamata normativa al caso concreto emerge che al momento del rientro in ospedale del dottor B, il quadro clinico deponeva chiaramente nel senso di una emorragia in corso e la signora A, pur versando in gravi condizioni, era ancora operabile e l'intervento chirurgico avrebbe potuto scongiurare l'esito fatale. Come dunque correttamente osservato dal primo giudice, la decisione assunta dal dottor B di non intervenire nuovamente fu il frutto di un errore diagnostico, non giustificabile sulla base dei risultati dell'ecografia effettuata, che non aveva segnalato sangue in addome: basti pensare che dalla consulenza tecnica sono emersi  seri dubbi sulla tecnica di esecuzione dell'esame strumentale e comunque, a prescindere dall'esito dell'ecografia, vi erano specifici segni indicativi della perdita ematica in atto.

In parole semplici, il dottor B sottovalutò e male interpretò i dati clinici della signora A; se ciò non fosse accaduto, la donna sarebbe ancora viva.

Il dottor C viene assolto nel giudizio di primo grado e poi condannato nel processo d'appello, durante il quale la Corte, vagliando le stesse prove che aveva valutato il Tribunale in primo grado, ha ritenuto che la sentenza fosse incompleta, incoerente e da riformare sulla base del principio che la nuova valutazione delle medesime prove ha avuto una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio sull'innocenza del dottor C.

Nel corso del processo di primo grado, infatti, la difesa del dottor C, per perseguire l'obiettivo della sua assoluzione, punta su tre possibili esimenti da responsabilità:

il dottor B aveva più anzianità di servizio,

il dottor B aveva seguito la signora A durante tutta la gravidanza,

il dottor B aveva deciso di praticare alla paziente il taglio cesareo anziché il parto naturale.

I magistrati della Corte d'appello non accolgono la tesi difensiva del dottor C, poiché sia lui che il dottor B erano entrambi specializzati in ostetricia e ginecologia, perciò avevano entrambi la competenza per rendersi conto di ciò che stava succedendo: il dottor C non doveva fare acriticamente affidamento sulla correttezza della condotta professionale del medico primo operatore, più anziano, ma doveva essere lui stesso in grado di valutare il caso della signora A e disporre, durante il considerevole lasso di tempo in cui era stato esclusivamente lui ad averla in cura quale medico di turno in reparto, l'intervento chirurgico (sollecitato anche dall'anestesista, cui era stata chiesta la consulenza) proprio a causa delle gravi condizioni della paziente: se lo avesse fatto, la signora A non sarebbe morta.

Il dottor C, al momento in cui era in turno ed aveva in cura esclusiva la signora A, ha inoltre commesso un errore diagnostico specifico: non ha riconosciuto gli indici dell'emorragia in atto sin dal momento in cui si era registrata una sensibile diminuzione dei globuli rossi, dell'emoglobina e dell'ematocrito, parametri sintomatici di una notevole perdita di sangue superiore ai normali valori di 600-700 ml. In quella fase il dottor C avrebbe dovuto optare per un intervento chirurgico o – quanto meno, per una TAC d'urgenza che avrebbe sicuramente consentito di individuare la causa dell'emorragia.

Dal momento in cui l'aveva presa in cura in reparto, il dottor C ha assunto nei confronti della paziente la medesima posizione di garanzia che aveva il dottor B quale primo operatore e medico che l'aveva in cura: egli, peraltro, aveva tutte le conoscenze mediche e le competenze per capire cosa stava succedendo. Cionostante, durante le due ore intercorse tra le 2.21 e le 4:15, quando sulla paziente era stato riscontrato uno stato sostanzialmente precomatoso, non ha adottato nessuna iniziativa e solo alle 4.59, quando la donna era ormai in grave stato di acidosi metabolica e di shock emorragico acuto, aveva fatto eseguire ulteriori esami ematochimici.

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La sentenza definitiva: condanne e risarcimenti per la morte evitabile

La Corte di Cassazione, chiamata a mettere la parola FINE su questa vicenda in maniera definitiva, ribadisce che la signora A è deceduta a causa di un'emorragia intraddominale originata da una lesione non suturata del segmento inferiore destro della parete uterina, conseguente al parto cesareo cui era stata sottoposta dal dottor B che l'aveva in cura e che l'ha operata, con l'assistenza quale secondo operatore del dottor C quale secondo operatore.

Per la morte della signora A il dottor B (il primo operatore che l'aveva in cura) e il dottor C (il secondo operatore) sono ritenuti colpevoli e condannati a un anno di reclusione, nonché al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili (i parenti della signora A) e delle Associazioni che si sono costituite in giudizio, oltre al pagamento delle spese processuali di ben tre gradi di giudizio.

Di: Manuela Calautti, avvocato

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