Paziente muore d'infarto per tardiva diagnosi: medico assolto. Cosa è successo?

Un paziente si reca in Pronto Soccorso con artralgie diffuse, ma il medico non riconosce immediatamente i segni di un infarto. Da qui il caso legale che troverà però il medico assolto.

Sommario

  1. Le prove raccolte durante il processo
  2. Le linee guida per le troponine cardiache alte
  3. Come è andata a finire

Il signor T. si alza la mattina per andare a lavorare, ma non si sente bene: lamenta dolori artralgici persistenti nella regione sub scapolare e costale, difficoltà a respirare, febbre. Decide perciò di recarsi in ospedale, dove viene preso in carico dalla dottoressa C., che al triage gli assegna un codice verde; il signor T., durante il colloquio anamnestico al triage, riferisce alla dottoressa C. i sintomi, segnalando altresì postumi di artrosi e pregresso intervento di protesi bilaterale alle anche.

Il signor T. viene sottoposto ad esami ematochimici e strumentali, i quali non danno esiti anormali, salvo:

  • enzima LDH (lattato deidrogenasi) con valori rilevanti,
  • presenza di grassi nel fegato sovradimensionato.

Il paziente presentava altresì elevati valori della glicemia (209), della PCR (15,65) e del CKMB (65): tali alterazioni venivano ritenute dalla dottoressa riconducibili alla terapia cortisonica assunta da T. nei giorni precedenti per il mal di schiena.

La dottoressa C. somministrava in Pronto soccorso terapia antidolorifica, a seguito della quale il signor T. si sentiva oggettivamente meglio; dato il decorso, veniva dimesso senza più alcun sintomo, con la diagnosi di artralgia dorsale con riscontro di LDH elevato e suggerimento di Tac addominale. T., che oramai si sentiva meglio, lasciava sulle proprie gambe, in autonomia, il Pronto soccorso.

Nel pomeriggio, a casa, il signor T. accusa nuovamente i dolori articolari della mattinata, ma in maniera ancora più forte. Si reca quindi nuovamente in Pronto soccorso, sudando e con forti algie alla spalla. Vengono ripetuti gli esami di laboratorio, dai quali questa volta emerge un forte e improvviso calo dei globuli rossi e dell’emoglobina, sintomatici di una forte imprevista anemizzazione. Alle 20.20 il signor T. andava in arresto cardiaco, e alle 20.50 decedeva.

I familiari del signor T., ritenendo che il decesso del loro congiunto sia riconducibile a una responsabilità colposa della dottoressa C., che non avrebbe ben compreso che il loro congiunto aveva un infarto in corso già al primo accesso in Pronto soccorso, sporgono denuncia: secondo i familiari, se T. fosse stato adeguatamente curato per l’infarto la mattina, non sarebbe deceduto la sera dopo la seconda disperata corsa in ospedale.

Le prove raccolte durante il processo

Nel sistema processuale penale italiano l’imputato può essere condannato solo se risulta colpevole del reato che gli viene contestato al di là di ogni ragionevole dubbio; in parole povere, nel corso del processo deve emergere la certezza della responsabilità dell’imputato, altrimenti, se vi è anche un solo dubbio sulla sua colpevolezza, dovrà essere dichiarato assolto.

Nel processo a carico della dottoressa C. questo principio ha trovato applicazione soprattutto nei giudizi di secondo grado e cassazione, durante i quali i giudici si sono a lungo interrogati sulla riconducibilità in capo alla dottoressa della morte di T., al di là di ogni ragionevole dubbio e sulla certezza delle cause del decesso dell’uomo.

Per riuscire a capire se la dipartita del signor T. fosse collegabile causalmente con la condotta della dottoressa sono state necessarie due perizie d’ufficio. La prima è stata eseguita a circa nove mesi dalla morte di T., quando i fenomeni putrefattivi avevano già compromesso ogni evidenza scientifica accertabile dall’esame autoptico.

Ciononostante, secondo quanto riportato nel primo accertamento peritale il sig. T. sarebbe deceduto a causa di uno shock cardiogeno da infarto miocardico verificatosi in sede di pregresso fatto analogo acuto (precedente infarto omosede); la dottoressa C. avrebbe la colpa di non aver compreso la patologia, omettendo perciò di disporre tutti gli esami ematochimici che avrebbero potuto palesare la gravità della situazione che poi, dopo il secondo accesso in Pronto soccorso, ha portato al decesso di T. Secondo gli accertamenti contenuti nel primo elaborato peritale, se la dottoressa avesse compreso la patologia e l’avesse adeguatamente contrastata con gli opportuni interventi terapeutici il sig. T. non sarebbe morto.

La seconda perizia, invece, nel porre l’accento sul lungo lasso di tempo trascorso tra la data del decesso e l’esecuzione dell’autopsia, evidenzia come il primo elaborato peritale ricostruisca un quadro monco e incompleto, affetto da pregiudizio logico e fattuale, poiché omette di studiare le caratteristiche dei cardiomiociti putrefatti, costituenti la peculiare composizione biofunzionale dell’organo miocardico del signor T. I medici che redigono il secondo elaborato peritale mettono in dubbio l’accertamento compiuto nella prima perizia, ritenendo che non sia possibile affermare con certezza che T. sia morto per infarto.

Viene accertato, inoltre, che le algie lamentate da T. presentavano delle difficoltà significative a livello diagnostico, e ciò per due ordini di motivi:

  1. perché non esiste un’esatta correlazione tra l’intensità del dolore avvertito da T. e la gravità della patologia sottostante,
  2. perché molte strutture toraciche possono dare origine a una sintomatologia dolorosa per molti aspetti simile e talvolta sovrapponibile fra diverse patologie.

I secondi periti evidenziano, quindi, l’impossibilità di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, le cause della morte del povero T. in virtù di un esame eseguito su organi, di fatto, in avanzato stato di decomposizione.

Il secondo elaborato peritale accerta, inoltre, che l’indagine sull’accertamento di cause certe del decesso del signor T. sono state notevolmente complicate dalla massiva emorragia interna riscontrata poco prima del decesso, la cui eziologia non è stata adeguatamente valutata all’esito dell’esame autoptico iniziale, rimanendo sempre sottotraccia.

In parole povere i secondi periti ritengono che non sia possibile dichiarare con certezza che il signor Tizio sia deceduto per un infarto, né che tale patologia fosse effettivamente in atto al momento del primo accesso al pronto soccorso: l’autopsia, infatti, pur dando atto dell’esistenza di preesistenti e silenti problemi cardiaci, non riesce a dar prova certa, al di là di ogni ragionevole dubbio, dell’infarto in corso durante il primo accesso al pronto soccorso e quindi dell’eventuale errore diagnostico imputabile alla dottoressa Caia.

Le linee guida per le troponine cardiache alte

Dagli esami condotti su T. al momento del primo accesso in pronto soccorso i valori delle cosiddette troponine cardiache erano alti. Tuttavia, nel corso del colloquio anamnestico, T. non riferiva di essere affetto da pregresse condizioni di cardiopatia: ciò poiché in effetti neanche lui sapeva di avere questi problemi. L’assenza di tale informazione, unita al fatto che gli esami ematochimici non recavano un’indicazione di infarto in corso, hanno indotto la dottoressa C. a ritenere che le algie fossero ascrivibili ad altra patologia, non connessa con l’infarto. Del resto, la sintomatologia riportata da T., in effetti, era di difficile diagnosi, poiché si trattava di sintomi che – in assenza di ulteriori informazioni specifiche – potevano essere ricondotti a una pluralità di patologie.

La condotta della dottoressa C. non può perciò essere ritenuta contraria alle linee guida generali per un paziente di anni 65 con riferiti continui problemi di artralgia severa e assunzione da almeno due settimane di cortisonici: secondo le linee guida, infatti, con quei valori chimicievocativi di molte patologie aspecifiche senza alcun evento acuto in atto – e con l’assenza di sofferenze cardiologiche note, la dottoressa Caia non aveva l’onere diagnostico di indagare ulteriormente i valori della troponina. Ciò anche in virtù del fatto che le linee guida che prescrivono l’indagine sui valori di troponina per l’accertamento dell’infarto in corso rappresentavano, all’epoca dei fatti, una metodica recentissima e innovativa, ancora poco conosciuta.

Vi è da dire, inoltre, che dopo la terapia analgesica T. si era sentito meglio e aveva lasciato il Pronto soccorso sulle sue gambe senza alcun problema. Il fatto che T. non fosse a conoscenza dei suoi problemi cardiaci è stato, purtroppo per lui, una fatalità, perché se lui avesse saputo di esser affetto da tali patologie probabilmente avrebbe fornito in sede di colloquio anamnestico un quadro differente ai sanitari.

Come è andata a finire

In primo grado la dottoressa C. è stata ritenuta colpevole del reato di omicidio colposo: il Tribunale, aderendo in maniera molto acritica al primo elaborato peritale, ritenne che se la dottoressa, durante il primo accesso in Pronto soccorso, avesse diagnosticato l’infarto, T. non sarebbe deceduto.

La Corte d’appello e la Corte di Cassazione, invece, alla luce di un attento e accurato esame di tutte le prove raccolte in giudizio, e in particolare della seconda perizia, che ha evidenziato l’impossibilità di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che T. sia effettivamente deceduto per un infarto e che se tale evento – incerto – fosse stato diagnosticato prima, lo stesso non sarebbe deceduto, hanno dichiarato l’assoluzione della dottoressa.

Di: Manuela Calautti, avvocato

News e Approfondimenti che potrebbero interessarti

Vedi i contenuti