Interventi medico-chirurgici di routine, al medico l’onere della prova

Gli interventi di routine in ambito medico sono quelli che non richiedono abilità particolari e per i quali i rischi di esiti negativi peggiorativi sono molto bassi. Ma se qualcosa dovesse andare storto, la giurisprudenza cosa dice?

Con la sentenza 24074/17 la Corte di Cassazione ha definito nuovamente in maniera chiara e precisa l’onere della prova in caso di prestazioni mediche routinarie, ponendo a carico del medico una sorta di presunzione di colpa volta a garantire una maggiore tutela del paziente.

La scelta della Suprema Corte si fonda sul presupposto, espresso già in diverse pronunce, che per questo tipo di intervento deve essere il medico a dimostrare che gli eventuali danni non si siano determinati per una causa a lui imputabile.In particolare, la Suprema Corte ha precisato che spetta al medico dimostrare che le "complicanze" non siano state determinate da omessa o insufficiente perizia professionale, ma da un evento imprevisto e imprevedibile secondo la diligenza qualificata, in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento.La richiesta del paziente, che aveva subito danni a seguito di un intervento considerato di routine, è stata ritenuta fondata perché, per poter escludere la responsabilità del medico, «il Giudice non può limitarsi a rilevare l'accertata insorgenza di "complicanze intra-operatorie", ma deve verificare la loro eventuale imprevedibilità ed inevitabilità, nonché l'insussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta e l'insorgenza delle predette complicanze, unitamente all'adeguatezza delle tecniche scelte dal chirurgo per porvi rimedio».Dunque, nella logica della Suprema Corte, criterio prioritario nelle cause di questo tipo è innanzitutto la tipologia dell’intervento, perché incide in maniera considerevole sulla prova relativa ai danni e sulla prova che il medico deve fornire per dimostrare che non sussiste a suo carico alcuna responsabilità.Nel caso di specie, la ricorrente aveva contestato anche l’acquisizione non corretta del consenso informato. Nel definire tale censura inammissibile, perché consistente nella semplice richiesta di valutazione di elementi indiziari, già analizzati nei precedenti gradi di giudizio, senza l’aggiunta di alcun fatto storico decisivo, ribadisce un principio già consolidato in virtù del quale «il  paziente deve provare, anche tramite presunzioni che il danno alla salute è dipeso causalmente dal fatto che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute».In materia di consenso informato, già in precedenza la Corte si era più volte pronunciata precisando che: il rispetto dell’autodeterminazione del paziente deve essere valutata in concreto, con riferimento alle effettive possibilità di scelta che il paziente avrebbe avuto se adeguatamente informato.
Di: Redazione Consulcesi Club

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