Responsabilità professionale: cosa succede all'endocrinologo che non prescrive gli esami di routine in PS?

L’endocrinologo che omette di prescrivere gli esami di routine in pronto soccorso risponde del decesso del paziente: nel nostro caso, solo la prescrizione e l’incertezza dei periti lo hanno salvato dalla condanna.

Sommario

  1. Peggioramento clinico, pronto soccorso e decesso: la sequenza degli eventi contestati
  2. La normativa violata
  3. Come è andata a finire

La signora A. ha un evidente gozzo tiroideo e da qualche tempo accusa un malessere diffuso; per questo motivo decide di rivolgersi al dottor B, medico di base, il quale dopo averle fatto fare degli esami riscontra un quadro clinico caratterizzato da tiroide autoimmunitaria e le prescrive una terapia farmacologica a base di Eutirox mg 50 per circa un mese, da aumentare successivamente a 75 mg.

Peggioramento clinico, pronto soccorso e decesso: la sequenza degli eventi contestati

Nei mesi successivi le condizioni di salute della signora A. peggiorano, in quanto la stessa accusa una rilevante perdita di peso (30 kg), estrema debolezza e tachicardia: questo peggioramento la induce a cambiare il medico di medicina generale, revocandolo, e a rivolgersi a uno specialista endocrinologo per capire cosa le stia succedendo. 

Si sottopone a visita dall’endocrinologo Dott. C., che dopo la visita le cambia la terapia sostituendo l’Eutirox con il Tapazole e prescrivendo un farmaco betabloccante, oltre a un controllo dei valori dell’emocromo e degli ormoni tiroidei. 

Una volta effettuati questi esami, la signora A. torna a visita dall’endocrinologo Dott. C., il quale le consiglia di proseguire con la terapia in atto. 

La signora A. continua a peggiorare, accusa poliuria e polidipsia, tanto da doversi rivolgere al pronto soccorso, dove viene visitata dall’endocrinologo Dott. D., che effettua l’elettrocardiogramma, ma non gli esami ematochimici di routine (compresa la glicemia) e la dimette confermando la diagnosi di tiroidite autoimmune e la terapia già prescritta dall’endocrinologo dott. C., aumentando solamente la posologia. 

La signora A. rientra a casa, ma subisce un ulteriore aggravamento delle sue condizioni, per cui il giorno dopo si reca nuovamente in pronto soccorso, dove purtroppo decede a causa di un collasso cardiocircolatorio indotto dalla presenza contemporanea di tireotossicosi e di cheto acidosi diabetica. 

I familiari della signora A. sporgono denuncia, ritenendo che la donna sia vittima di un caso di malasanità. 

La normativa violata

La responsabilità penale del medico è disciplinata dal combinato dagli articoli 589, 590 e 590 sexies del codice penale: se, nell'esercizio della professione sanitaria, il medico cagiona la morte o delle lesioni al paziente, rischia una pena che va da un minimo di tre anni (pena minima per le lesioni) a cinque anni di reclusione (pena massima prevista per l'omicidio colposo, salvo particolari circostanze in cui la pena può aumentare fino a dieci anni). 

L'art. 590 sexies del codice penale, introdotto dalla legge Gelli Bianco, prevede una particolare causa di giustificazione per il professionista sanitario: difatti, qualora la morte o le lesioni del paziente si siano verificati a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto. 

Nel caso della signora A., ai fini dell’accertamento della colpa medica, è fondamentale accertare la sussistenza del nesso causale tra il decesso e la condotta dei medici, in quanto occorrono due elementi concorrenti: 

  • La condotta umana (dei medici) deve aver posto una condizione dell’evento, 
  • Il risultato non deve essere conseguenza dell’intervento di decorsi causali alternativi, di per sé soli sufficienti a causare l’evento morte della paziente. 

In campo medico hanno estrema rilevanza le condotte poste in essere in violazioni di regole cautelari da parte del titolare della posizione di garanzia in relazione alla salute del paziente, in quanto investito della sua cura. Il ricorso alle cognizioni scientifiche, nello studio degli eventi che si verificano in ambito sanitario, soddisfa i principi di tassatività e di certezza giuridica, in quanto consente di imputare all'uomo un evento che può essere scientificamente considerato conseguenza della sua azione od omissione (Cassazione penale sez. 4, n. 17491 del 29/03/2019). 

I giudici, normalmente, non sono anche degli esperti di medicina, perciò devono avvalersi del sapere scientifico di un consulente di fiducia, che fornisca loro tutti i dati tecnici di cui sono sprovvisti, e utilizzare le loro conclusioni per affermare o negare la responsabilità di un medico per la morte o le lesioni cagionate a un paziente. 

In tema di responsabilità medica, il giudice di merito che intenda discostarsi dalle conclusioni del perito d'ufficio è tenuto ad un più penetrante onere motivazionale, illustrando accuratamente le ragioni della scelta operata, in rapporto alle prospettazioni che ha ritenuto di disattendere, attraverso un percorso logico congruo, che evidenzi la correttezza metodologica del suo approccio al sapere tecnico- scientifico, a partire dalla preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni scientifiche disponibili ai fini della spiegazione del fatto (Cassazione penale sez. 4, n. 37785 del 11/12/2020, Cassazione penale sez. 5, n. 9831 del 15/12/2015). 

Questo principio vale anche nel caso in cui la perizia sia stata effettuata dai consulenti medici del Pubblico Ministero o della difesa. 

Come è andata a finire

Nei primi due gradi di giudizio il medico di base dottor B. e l’endocrinologo del pronto soccorso dottor D. sono stati condannati per avere cagionato, per negligenza, imprudenza e imperizia, la morte della signora A. 

Durante il giudizio di Cassazione, tuttavia, il reato si è prescritto perché il processo, nel suo complesso, è durato troppo, perciò la Corte ha dovuto valutare la sussistenza della colpevolezza dei due medici solo ed esclusivamente ai fini della condanna o meno al pagamento del risarcimento del danno da morte nei confronti dei familiari della signora A. 

Le sentenze di primo e secondo grado condannano il dottor B e il dottor B. ritenendo che: 

  • Il dottor B. ha errato nel somministrare l’Eutirox, perché ha immesso nel suo organismo ulteriori ormoni tiroidei oltre a quelli già prodotti in eccesso a causa dell’ipertiroidismo, 
  • Il dottor D. ha errato nell’omettere i prelievi del sangue, doverosi stante la correlazione, certificata da studi scientifici, tra ipertiroidismo e diabete di tipo L. 

Tuttavia, nell’affermare la penale responsabilità dei due medici, i giudici, che non sono periti in materia sanitaria e che si avvalgono, per sopperire alla loro “non conoscenza” della materia, di consulenti tecnici d’ufficio che godono della fiducia dell’Autorità Giudiziaria, si sono discostati dalle conclusioni cui erano giunti i consulenti, senza dare alcuna spiegazione. 

In particolare, la C.T.U., per quanto concerne la responsabilità del medico di base dottor B. è estremamente contraddittoria, perché: 

  • da un lato dice che la terapia errata aveva mascherato lo scompenso iperglicemico consentendo l’azione sinergica negativa della tireotossicosi sul diabete di tipo L, 
  • dall’altro conclude ritenendo che la somministrazione di Eutirox comunque non è stata concausa della morte. 

Per quanto concerne la posizione dell’endocrinologo dell’ospedale, dottor D., invece, la consulenza tecnica del PM si mostra contraddittoria poiché: 

  • sostiene che il dottor D. avrebbe potuto, ma non avrebbe dovuto controllare i valori di glicemia in assenza di sintomi di poliuria e polidipsia, rimettendo al giudizio del singolo sanitario la valutazione sull’eseguirli o meno, 
  • le Raccomandazioni per la pratica clinica Tireopatia e Diabete evidenziano come l’associazione fra le due patologie si riscontra non raramente. 

Alla luce dei principi giurisprudenziali sopra descritti, per cui il giudice deve, sostanzialmente, spiegare il motivo per cui si discosta dalle conclusioni dei soggetti che hanno veicolato loro il sapere scientifico, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado anche con riferimento alle statuizioni civili, rimettendo le parti direttamente dinanzi al giudice civile, davanti alla Corte d’appello. 

Di: Manuela Calautti, avvocato

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