Il tema delle ferie accumulate dal personale sanitario e non potute godere per le croniche carenze organizzative è così vasto, da riguardare tutte le categorie professionali: dai responsabili di struttura ai dirigenti medici, dai coordinatori delle professioni sanitarie al singolo dipendente del comparto.
Un sondaggio di qualche tempo fa evidenziava come fossero più di 5 milioni i giorni di ferie accumulati negli anni dalla classe medica. In particolare, il 15% degli intervistati dichiarava di avere più di 120 giorni di ferie arretrate, con picchi che in taluni casi superano addirittura i 200 giorni.
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La normativa comunitaria: cosa prevede?
La Direttiva 2003/88/CE, che regolamenta gli orari di lavoro nel settore pubblico, prevede che ogni dipendente abbia diritto a un periodo di ferie annuali retribuite e non rinunciabile e che è vietata la monetizzazione delle ferie fino al momento della cessazione del rapporto lavorativo.
Questa previsione è spesso foriera di erronee interpretazioni da parte delle amministrazioni pubbliche che, il più delle volte, respingono le richieste di pagamento avanzate dal dipendente, con la laconica risposta per cui, visto quanto disposto dall’art. 5, comma 8, del D.L. n. 95/2012 (convertito nella L. 135/2012), le ferie devono essere obbligatoriamente fruite secondo i rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi.
La Corte di Giustizia Europea ha però ripetutamente affermato, in successive decisioni sempre analoghe, che l’articolo 7 della Direttiva 2003/88/CE deve essere interpretato nel senso che contrasta con una normativa nazionale, che preveda il mancato riconoscimento dell’indennizzo per le ferie di cui il lavoratore non abbia potuto usufruire per causa a lui non imputabile prima della data della cessazione del rapporto.
Questo significa che il dipendente non solo non può perdere il diritto a fruire delle ferie pregresse, ma soprattutto permane il suo diritto a vedersele monetizzate ma – e questo è il punto – soltanto dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
È dunque il datore di lavoro a dover dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a consentire al lavoratore di esercitare concretamente il suo diritto, informandolo allo stesso tempo che la mancata fruizione potrebbe comportare la perdita dell’indennizzo: se il lavoratore ha, nonostante tutto, rinunciato volontariamente e consapevolmente, allora (e solo allora) perderà la possibilità di essere indennizzato, ma se ciò non accade è possibile attivarsi nei confronti dell’Azienda sanitaria per richiedere il pagamento dell’indennità per i giorni di ferie accumulati negli anni nella misura pari alla retribuzione lorda per ogni giorno non goduto, oltre ai riflessi previdenziali.
L’orientamento della Corte di Cassazione
Proprio qualche giorno fa, la Corte di Cassazione è nuovamente tornata a far sentire la sua voce sulla questione, peraltro già scrutinata in varie occasioni con un portato giurisprudenziale sempre più coerente con i principi riconosciuti dal diritto comunitario, per esaminare la situazione particolare in cui versa il dipendente pubblico che, anziché cessare il suo rapporto lavorativo per il naturale raggiungimento dei requisiti per l’accesso alla pensione, si è invece dimesso volontariamente.
Il caso, risolto con l’ordinanza n. 32087 del 27/11/23, vedeva protagonista un dirigente medico di una ASL nazionale che aveva agito per rivendicare il pagamento dell’indennità sostitutiva per 157 giornate di ferie non godute, così accumulate al momento della cessazione del suo rapporto lavorativo.
La domanda veniva respinta sia in primo grado, che in appello sul presupposto che in parte fosse prescritta e che, per le altre ferie per cui sussisteva ancora il diritto, le dimissioni costituissero una rinuncia implicita all’indennizzo, venendo in rilievo una vicenda estintiva del rapporto di lavoro correlata alla scelta volontaria del lavoratore.
Dopo il ricorso
Proposto ricorso per cassazione, affidato a plurimi motivi di censura rispetto alla sentenza impugnata, la Corte ha incentrato tutta la decisione sulla questione delle dimissioni, ritenendola di agevole soluzione, con conseguente assorbimento di tutte le altre parimenti sollevate dalla difesa del medico.
Ribadita, con rinnovata fermezza, la necessità di mantenere un criterio interpretativo delle norme interne coerente con i principi enunciati dalla Corte unionale, per cui “la perdita del diritto alle ferie, ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, può verificarsi soltanto qualora il datore di lavoro offra la prova di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie (se necessario formalmente) e di averlo nel contempo avvisato - in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all'interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire - che, in caso di mancata fruizione, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato”, il Supremo Consesso ha dunque affrontato il tema degli effetti correlati alle dimissioni del dipendente.
Nel far ciò, i giudici di legittimità hanno espresso pieno contrasto rispetto all’interpretazione fornita dalla Corte di merito, laddove aveva considerato questo atto volontario alla stessa stregua di una rinuncia, seppur implicita, alle ferie accumulate, ritenendola estranea all’orientamento più volte ribadito.
In sintesi, si è quindi nuovamente ripetuto che "la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova: i) di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie, se necessario formalmente; ii) di averlo nel contempo avvisato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all'interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire iii) del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato".
Nello specifico delle dimissioni volontarie, la Corte ha quindi affermato come da questo atto non possa discendere un’automatica rinuncia all'indennità sostitutiva delle ferie, trattandosi di “atto volontario posto dalla disciplina (D.L. n. 95 del 2012, art. 5, comma 8) sullo stesso piano delle altre vicende risolutorie del rapporto di lavoro”.
La conclusione
Di notevole spessore ed interesse anche l’ultimo inciso relativo al termine di prescrizione nel momento in cui, nell’accogliere l’ulteriore motivo di censura presentato dal medico, la Corte di Cassazione ha ripetuto che la prescrizione del diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti decorre dal momento in cui il rapporto di lavoro viene a cessare, e non prima, tranne che non sia dimostrato, da parte dell’Azienda sanitaria, che il lavoratore non abbia fruito del periodo di ferie, malgrado fosse stato invitato, in modo accurato ed in tempo utile, a farlo con relativa avvertenza che, in tal caso, quei giorni verranno definitivamente persi.