Vent’anni da OSS invece che da infermiere: tribunale condanna azienda per demansionamento

Il Tribunale di Enna ha riconosciuto il demansionamento subito da quattro infermieri per oltre vent’anni, costretti a svolgere mansioni da operatore socio-sanitario. La sentenza stabilisce un risarcimento del 15% della retribuzione percepita, rafforzando il fronte giurisprudenziale a tutela della professionalità infermieristica.

Sommario

  1. Come è nata la vicenda dei quattro infermieri
  2. La figura dell’infermiere
  3. Le norme che vietano il demansionamento
  4. Il codice deontologico non giustifica gli abusi
  5. Quando il demansionamento è reale e sistematico
  6. La carenza di personale non è una scusa valida
  7. Come si dimostra il demansionamento in tribunale
  8. La quantificazione del danno e il criterio equitativo
  9. La condanna dell’azienda

Continua il trend delle pronunce favorevoli raccolte dal mondo infermieristico rispetto all’annosa problematica del demansionamento lavorativo.

L’ultima, ma soltanto in ordine di tempo, è la sentenza n. 450/2025 pubblicata lo scorso 6 giugno, con cui  la Sezione Lavoro del Tribunale di Enna ha condannato l’azienda territoriale al pagamento del risarcimento dei danni provocati a 4 infermieri, che reclamavano di aver svolto mansioni inferiori al loro inquadramento contrattuale per oltre 20 anni.

Come è nata la vicenda dei quattro infermieri

La disputa origina dalla denuncia di alcuni dipendenti ospedalieri che, seppur inquadrati come infermieri professionali, riferivano di essere stati invece adibiti, in maniera costante e prevalente, allo svolgimento di prestazioni non ricomprese nel loro inquadramento, bensì in quello di ausiliario e/o di operatore socio-sanitario.

Ritenuta tale condotta contraria alle previsioni di legge contenute nell’art 52 del D. Lgs. n. 165/2001 e dell’art 2103 c.c., i medesimi lavoratori chiedevano al magistrato la condanna dell’azienda al ripristino delle loro effettive funzioni, nonché al risarcimento dei danni patrimoniali e non patiti in conseguenza dell’avvenuta dequalificazione professionale.

La figura dell’infermiere

Nel motivare la propria decisione, il Giudice ha ritenuto opportuno rievocare il contenuto del D.M. n. 739/1994 che, descrivendo la figura dell’infermiere professionale, ricorda che si tratta di profilo, in possesso del diploma universitario abilitante e dell'iscrizione all'albo professionale, responsabile dell'assistenza generale infermieristica.

Le funzioni a cui è specificatamente adibito riguardano, pertanto, la prevenzione delle malattie, l'assistenza dei malati e dei disabili di tutte le età e l'educazione sanitaria.

Nello specifico, l’infermiere:

  1. partecipa all'identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività;
  2. identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi;
  3. pianifica, gestisce e valuta l'intervento assistenziale infermieristico;
  4. garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche;
  5. agisce sia individualmente, sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali;
  6. per l'espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell'opera del personale di supporto;
  7. svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e nell'assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale.

Le norme che vietano il demansionamento

Dovendo così passare alla verifica del reclamato demansionamento, sono stati quindi menzionati i principi regolatori della materia, contenuti in primis nell’art. 52 del D. Lgs. n. 165/2001, a tenore del quale “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all'articolo 35, comma 1, lettera a)”.

A ciò si aggiunge poi il disposto di cui all’art. 2103 c.c., secondo il quale il lavoratore deve essere assegnato alle mansioni per le quali è stato assunto, a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero riferibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

Il codice deontologico non giustifica gli abusi

Posti i principi generali, il giudizio di demansionamento dovrà però tener conto anche dell’art. 49 del codice deontologico degli infermieri, che impone di compensare le carenze e i disservizi che possono eccezionalmente verificarsi nella struttura in cui si opera.

Questo aspetto assume decisiva rilevanza dal momento che l’infermiere, proprio perché garante dell’interesse primario degli assistiti, può essere chiamato allo svolgimento di prestazioni aggiuntive, ancorchè non previste ordinariamente.

Ne consegue che non ricorre un’ipotesi di demansionamento tutte le volte in cui:

  • la prestazione diversa, o comunque estranea ai propri compiti, sia del tutto occasionale e per un tempo ridotto;
  • che, in ogni caso, l’infermiere mantenga la possibilità di svolgere in modo prevalente ed assorbente, le mansioni proprie alla propria qualifica professionale.

Questo significa che, perlomeno in linea teorica, può considerarsi legittima l’assegnazione promiscua, ma soltanto entro determinati e specifici limiti.

Quando il demansionamento è reale e sistematico

Ben diversa deve essere allora la valutazione – e quindi la conseguente decisione – laddove l’infermiere venga prevalentemente adibito per lunghi periodi allo svolgimento dei compiti tipici del personale con profilo professionale inferiore.

In buona sostanza, si passa da una situazione di legittimità ad un’altra di conclamata violazione dell’art 2103 c.c., tutte le volte in cui la situazione di eccezionalità lascia il posto ad una sorta di stabilizzazione, in termini di prevalenza e di continuità temporale, rispetto all’assegnazione dell’infermiere a mansioni non conformi al proprio inquadramento contrattuale.

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La carenza di personale non è una scusa valida

Vale ricordare che, in questi casi, la carenza di personale non può valere e giustificare l'operato dell’Azienda sanitaria che, con continuità, adibisca prevalentemente il professionista sanitario all’espletamento di mansioni inferiori rispetto a quelle previste dal contratto.

Proprio di recente, il Tribunale di Lecce (sent. n. 1392/2024) ha acutamente osservato “la carenza di personale da cui promana l'impiego del ricorrente in compiti di minore rilievo professionale, non può, infatti, valere e giustificare l'operato dell'amministrazione convenuta, in ogni caso tenuta - a prescindere dalle ragioni di carenza di personale - ad adottare soluzioni utili a rispettare i requisiti di professionalità dei propri dipendenti”.

Come si dimostra il demansionamento in tribunale

Nel giudizio di demansionamento, il magistrato ha quindi raccolto tutte le prove testimoniali e documentali messe a disposizione delle parti, giungendo così a  ritenere dimostrato come gli infermieri ricorrenti fossero stati concretamente adibiti alle mansioni tipiche dell’OSS/OTA, con carattere di continuità (praticamente in ogni turno lavorato) e di prevalenza (essendo impegnato maggiormente in queste attività piuttosto che in quelle proprie), tanto da considerarla ormai normale routine lavorativa.

Nello specifico è emerso che, per diversi anni, gli infermieri si sono occupati, costantemente, di sostenere le mansioni tipiche del personale socio sanitario quali, ad esempio: riassettare i letti, abbassare lo schienale dal letto dei pazienti, servire il vitto, prendere lenzuola e coperte, curare l’igiene personale, trasportare il paziente in altri reparti, di prendere i parametri vitali.

La quantificazione del danno e il criterio equitativo

Riconosciuta la responsabilità contrattuale dell’azienda datrice di lavoro per aver tenuto una condotta sostanzialmente demansionante rispetto agli infermieri ricorrenti, il Giudice ha quindi individuato il danno provocato, indentificandolo nell’impoverimento delle loro capacità per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la loro professionalità, ricorrendo per la sua quantificazione al criterio equitativo, ex art. 1226 c.c., sulla scorta della retribuzione riconosciuta.

Nel motivare tale aspetto, si è difatti affermato che lo svolgimento di mansioni promiscue e prevalente adibizione a mansioni di livello inferiore ha comportato “una sottoutilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore, sicchè appare concretamente essersi realizzata una parziale dispersione della esperienza professionale e dunque un danno alla professionalità ed all’immagine professionale giacchè si è verificata una inevitabile deminutio delle proprie capacità professionali quali in precedenza acquisite e concretamente profuse nell'attività di infermiere professionale”.

La condanna dell’azienda

Accertato lo svolgimento, dal momento dell’assunzione, di mansioni inferiori, il Tribunale di Enna ha dunque condannato l’Azienda sanitaria al risarcimento in favore degli infermieri ricorrenti dei danni calcolati in via equitativa, avuto riguardo alla retribuzione percepita da ciascuno, tenuto conto della durata del demansionamento (circa 20 anni), della risonanza nell’ambiente specifico e della gravità dello stesso, nella misura del 15 % della retribuzione percepita dalla rispettiva data di assunzione fino alla data di deposito del ricorso.

Di: Francesco Del Rio, avvocato

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