La valutazione errata dei sintomi al triage: la responsabilità dell’infermiere

Secondo le Linee Guida l’infermiere di triage non si limita alla mera compilazione della scheda, ma svolge una prima valutazione dei sintomi al fine di attribuire il codice di gravità: se omette dati anamnestici, incorre in responsabilità professionale.

Sommario

  1. Il caso clinico e l’errore al triage
  2. Le norme violate: responsabilità penale e Linee guida sul triage
  3. L’esito del processo: prescrizione penale ma condanna civile al risarcimento

È quasi mezzanotte quando il signor A arriva in pronto soccorso – accompagnato dai suoi familiari – in preda a un forte attacco di asma, patologia che lo affligge sin da bambino. 

L’infermiere B, addetto al triage, raccoglie le risposte del signor A alle domande “di rito” al fine di compilare la scheda triage e descrivere un primo quadro dei sintomi, provvedendo anche a misurare la saturazione di ossigeno nel sangue. 

Il caso clinico e l’errore al triage

Dopo l’attività preliminare di triage, l’infermiere A assegna al paziente un codice di accesso di colore verde (trattamento differibile) e accompagnandolo in un’altra stanza, in attesa dell’intervento del medico di turno, che in quel momento stava assistendo un altro paziente. 

Nella stanza con il signor A rimane suo fratello, il signor C, il quale riferisce che nonostante il signor A manifestasse ancora difficoltà respiratorie, nessun sanitario si è recato a controllare le sue condizioni per ben quarantacinque minuti. 

Il dottor D si reca dal signor A solo al termine della visita del precedente paziente: compresa immediatamente la gravità del quadro clinico, trasferisce il signor A in un’altra stanza per poi condurlo nella shock-room. 

L’intervento del dottor D, purtroppo, non riesce ad evitare il decesso del signor A per arresto cardio-respiratorio, avvenuto alle ore 1:30, solo un’ora e trenta dopo il suo accesso in pronto soccorso. 

I familiari del signor A sporgono denuncia alla competente Procura della Repubblica, ritenendo che la morte del loro congiunto sia riconducibile a gravi negligenze dei sanitari coinvolti. 

Le norme violate: responsabilità penale e Linee guida sul triage

La responsabilità penale del professionista sanitario è disciplinata dal combinato disposto degli articoli 589, 590 e 590 sexies del codice penale: se, nell'esercizio della professione sanitaria, il professionista cagiona la morte o delle lesioni al paziente, rischia una pena che va da un minimo di tre anni (pena minima per le lesioni) a cinque anni di reclusione (pena massima prevista per l'omicidio colposo, salvo particolari circostanze in cui la pena può aumentare fino a dieci anni). 

L'art. 590 sexies del codice penale, introdotto dalla legge Gelli Bianco, prevede una particolare causa di giustificazione per il professionista sanitario: difatti, qualora la morte o le lesioni del paziente si siano verificati a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto. 

Nel caso di specie l’attenzione degli inquirenti è stata rivolta soprattutto all’accesso del paziente in ospedale e al rispetto delle Linee guida sul Triage intraospedaliero (valutazione gravità all’ingresso) approvate con accordo tra il Ministero della Salute, le Regioni e le province autonome il 25 ottobre 2001 e pubblicate in Gazzetta Ufficiale n. 285 del 7 dicembre 2001. 

Secondo le Linee guida i codici di criticità sono articolati in quattro categorie ed identificati con colore: 

- codice rosso – molto critico, priorità massima pazienti con compromissione delle funzioni vitali, accesso immediato alle cure, 

- codice giallo – mediamente critico, priorità intermedia, 

- codice verde – poco critico, priorità bassa, prestazioni differibili, 

- codice bianco – non critico, pazienti non urgenti. 

In virtù delle Linee guida il triage deve essere svolto da un infermiere esperto e specificamente formato, sempre presente nella zona di accoglimento del pronto soccorso, in grado di considerare i segni e sintomi del paziente per identificare condizioni potenzialmente pericolose per la vita e determinare, per ciascun paziente, un codice di gravità al fine di stabilire le priorità di accesso alla visita medica. 

L’infermiere di triage opera sotto la supervisione del medico in servizio – responsabile dell’attività – e secondo protocolli predefiniti riconosciuti e approvati dal responsabile del servizio di pronto soccorso. 

Le Linee guida considerano adeguatamente formato per il triage un infermiere con diploma di infermiere professionale o diploma universitario di infermiere e con esperienza sul campo di almeno sei mesi in pronto soccorso. 

Nella formazione dell’infermiere di pronto soccorso addetto al triage, oltre all’insegnamento di base delle funzioni di triage, devono essere incluse anche lezioni di psicologia comportamentale, di organizzazione del lavoro e di conoscenza di tecniche relazionali. 

L’attività di triage è articolata in: 

  1. Accoglienza, attività consistente nella raccolta di dati, di eventuale documentazione medica, di informazioni da parte di familiari e/o soccorritori, rilevamento parametri vitali e registrazione;
  2. assegnazione codice di gravità (rosso, giallo, verde, bianco).

Dal disposto delle Linee guida si evince, perciò, che il personale infermieristico ha un ruolo fondamentale all’interno del pronto soccorso, poiché gli compete non solo la completa raccolta dei dati (che non è limitata ai soli parametri vitali), ma anche e soprattutto un giudizio di carattere valutativo dei sintomi riscontrati e riferiti. 

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L’esito del processo: prescrizione penale ma condanna civile al risarcimento

Dall’istruttoria dibattimentale è emerso che l’infermiere B ha errato nell’attribuire il codice al signor A, omettendo dei dati anamnestici importanti quali la difficoltà di movimento, la disfonia, il tempo trascorso dall’inizio dell’attacco asmatico, le allergie del paziente e le informazioni circa eventuali cibi assunti poco prima dell’attacco. 

Inoltre l’infermiere B, che comunque non aveva il compito di formulare la diagnosi, avrebbe dovuto – da Linee Guida – procedere all’auscultazione mediante stetoscopio del signor A: se lo avesse fatto, avrebbe rilevato i “sibili” certamente presenti in un attacco di asma così grave come quello che ha poi ucciso il paziente, e avrebbe perciò compilato correttamente la scheda di triage, che nel caso di specie aveva addirittura una voce ben specifica per indicare, nei pazienti con difficoltà respiratorie, la presenza o meno di sibili. 

Dalla sottovalutazione del rischio clinico del paziente e dall’errata attribuzione, da parte dell’infermiere A, di una sintomatologia da attacco di panico, è scaturito da parte dello stesso l’omesso monitoraggio costante delle sue condizioni dopo l’ingresso: se l’infermiere avesse monitorato il signor A, infatti, avrebbe potuto allertare il sanitario di turno che sarebbe intervenuto prima, scongiurando il peggiorare della crisi respiratoria e il successivo decesso, avvenuto, secondo i periti, per un arresto cardiorespiratorio causato da insufficienza respiratoria acuta conseguente ad un attacco asmatico di tipo 2, causato – con alto grado di probabilità – dall’ingestione, durante la cena, di un sugo pronto che contiene solfiti, sostanze fortemente allergizzanti. 

Ciononostante, il processo a carico dell’infermiere A è durato troppo e alla fine i giudici hanno dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per intervenuta prescrizione del reato, nonostante vi fossero tutti i gravi indizi di colpevolezza a suo carico. 

L’intervenuta prescrizione non ha messo al sicuro l’infermiere B dal suo obbligo di risarcire – insieme all’azienda ospedaliera – il danno ai parenti del signor A, costituitisi parte civile nel processo penale. 

 

Di: Manuela Calautti, avvocato

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