La signora A è alta un metro e settantadue centimetri e pesa circa 60 kg; non soddisfatta del suo aspetto fisico, decide di rivolgersi al farmacista del paese, dottor B, noto – oltre che per la titolarità della farmacia – per esercitare, di fatto, l’attività di dietologo.
Dal consiglio dietetico alla denuncia: la storia
Il farmacista dottor B assicura alla signora A che le avrebbe dato “un codice bello forte” che l’avrebbe fatta dimagrire in modo rapido, grazie a delle pillole di sua preparazione dal costo di circa euro 250,00, da assumere prima dei pasti principali nelle seguenti dosi: quattro al mattino, quattro prima di pranzo, quattro prima di cena.
La “prescrizione” delle pillole da parte del farmacista è avvenuta in assenza di visita medica e analisi di laboratorio; inoltre, il farmacista non ha dato alcuna indicazione alla signora A circa i pasti e le quantità da seguire, limitandosi a rassicurarlo circa il fatto chele pillole avrebbero eliminato le calorie introdotte con il cibo dalla signora A, assicurandogli il dimagrimento a prescindere da ciò che il paziente mangiava.
Sin dall’assunzione dei farmaci, la signora A avvertiva:
- totale perdita dell’appetito,
- continua sete,
- conati di vomito,
- senso di spossatezza.
Tali sintomi limitavano in maniera notevole la qualità della vita della signora A, al di là del dimagrimento registrato; pertanto, il paziente contattava il farmacista per rappresentagli la situazione, ricevendo come risposta il consiglio di continuare la cura.
La signora A, perciò, proseguiva con l’assunzione delle pillole, riscontrando tuttavia un peggioramento dei sintomi in quanto a quelli sopra descritti (notevolmente peggiorati) si erano aggiunti anche la dissenteria e il vomito, che si manifestavano persino mentre il paziente era alla guida.
Con il passare del tempo (la “cura dimagrante” si è protratta per circa quattro mesi) i sintomi si aggravano e la paziente lamenta, inoltre, paralisi agli arti inferiori, alle mani e poi alla testa, nonché interruzione del ciclo mestruale e perdita dei capelli, tant’è che la signora A doveva ricorrere a una parrucca.
Dopo quattro mesi la signora A viene ricoverata in ospedale, dove le viene diagnosticata la ipokalemia, cioè un grave squilibrio elettrolitico consistente, in parole semplici, nella carenza di potassio nel sangue, che nei casi più gravi può addirittura condurre alla morte.
Inizialmente la signora A, fidandosi del giudizio professionale del dottor B, non collega i sintomi all’assunzione dei farmaci dimagranti; tuttavia, dopo aver ottenuto dall’ospedale la copia della sua cartella clinica, rivolgendosi a un medico riesce a ricollegare i disturbi al farmaco assunto, prescrittole dal farmacista.
Decide, perciò, di denunciare il dottor B per le lesioni riportate, ritenendo di aver subito un caso di malpractice medica.
Responsabilità professionale e norme violate dal farmacista
Il farmacista, secondo l’articolo 3 del suo Codice Deontologico, ha il divieto di dispensare farmaci in modo pericoloso perla salute pubblica; il farmacista è colui che si occupa della dispensazione dei medicinali, qualificata come atto sanitario a tutela della salute e dell’integrità psicofisica del paziente, assumendo la responsabilità della dispensazione e della preparazione galenica di medicinali.
Quando il farmacista svolge la sua attività di dispensazione del farmaco (anche galenico), nonché di consiglio e consulenza professionale, ha l’obbligo di garantire al paziente un’informazione sanitaria chiara, corretta e completa, con particolare riferimento a:
- Uso appropriato dei medicinali,
- Controindicazioni,
- Interazioni,
- Effetti collaterali,
- Conservazione del farmaco.
Ciò premesso in termini deontologici, dal punto di vista penale possiamo dire che a seguito della denuncia presentata dalla signora A il dottor B è stato iscritto nel registro degli indagati per il reato di lesioni colpose di cui all’articolo 590 codice penale.
All’epoca, infatti, non era ancora in vigore l’articolo 590 sexies del codice penale, introdotto dalla legge Gelli Bianco, che stabilisce che se il reato di omicidio colposo o di lesioni personali colpose vengono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si applicano le seguenti pene: reclusione dai sei mesi ai cinque anni per l'omicidio colposo,
- reclusione fino a tre mesi o multa fino a euro 309 per le lesioni personali colpose,
- reclusione da uno a sei mesi o multa da euro 123 a euro 619 se la lesione è grave,
- reclusione da tre mesi a due anni o multa da euro 309 a euro 1.239 se la lesione è gravissima.
Tuttavia, la punibilità del professionista sanitario è esclusa se la morte o le lesioni del paziente si sono verificate a causa di imperizia e sono state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida o le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni risultino adeguate alle specificità del caso concreto.
I fatti che hanno visto come protagonista il dottor B si sono verificati nel 2015, in quel breve periodo in cui è stata in vigore la cosiddetta legge Balduzzi sulla responsabilità medica, in virtù della quale il professionista sanitario che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve.
Ciò premesso, va detto che il dottor B ha prescritto alla signora A dei farmaci definiti “off label”, cioè quei farmaci che vengono utilizzati per scopi diversi da quelli consigliati, disciplinati dalla cosiddetta legge Di Bella (D.L. 23/1998 e successive modifiche).
La legge Di Bella riserva al medico la prescrizione di farmaci off label, previa acquisizione del consenso informato da parte del paziente: il farmacista, in questo iter, si limita a consegnare al paziente il farmaco off label prescritto dal medico dietro presentazione di apposita specifica prescrizione e di trasmettere mensilmente – in originale o copia – all’ASL o all’Azienda ospedaliera le ricette per le opportune verifiche.
La legge Finanziaria 2008 (legge n. 244/2007) ha stabilito che l’uso di terapie off label a carico del SSN è consentito solo nell’ambito di sperimentazioni cliniche ed è vietato nelle strutture sanitarie pubbliche.
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La sentenza definitiva: condanna penale e risarcimento dei danni
Nel corso del processo è stato accertato che le pillole vendute dal dottor B contenevano:
- Diuretici,
- vitamine,
- efedrina (sostanza solitamente usata per la cura dell'asma ma che nelle diete agisce aumentando il metabolismo cellulare e stimolando la secrezione di catecolamine)
- naxeltrone (che é un antagonista degli oppiacei e che riduce l'attività dei centri cerebrali che controllano la sensazione di piacere collegata all'ingestione del cibo ma che é anche fortemente epatotossico e va dunque somministrato solo in caso di assoluta necessità).
Tali farmaci sono stati appositamente preparati e somministrati dal dottor B per scopi diversi da quelli per cui sono nati: egli, infatti, li ha addirittura prescritti (pur senza essere abilitato) alla signora A per dimagrire, senza che la stessa avesse svolto alcun accertamento diagnostico prima di iniziare la “cura”.
In giudizio è stata perciò accertata la correlazione tra il malessere e i disturbi che poi hanno condotto la signora A al ricovero ospedaliero e la condotta del dottor B, che con negligenza, imprudenza e imperizia ha prescritto e dispensato alla signora A dei farmaci off label da utilizzare per dimagrire, provocandole delle lesioni personali.
La condanna definitiva, dopo i tre gradi di giudizio, è stata la seguente:
- due mesi di reclusione,
- risarcimento del danno patito dalla signora A, da liquidarsi in sede civile,
- condanna al pagamento delle spese dei tre gradi di giudizio.
Non conosciamo l’esito di un’eventuale azione disciplinare, che con alta probabilità sarà stata intrapresa dall’Ordine di appartenenza.