Il paziente A. è affetto da encefalopatia, diagnosticatagli sin da piccolo. Nonostante l’importante disabilità riesce comunque a esprimersi e a comunicare sia con i familiari che con i terzi. Il paziente, a seguito di un’occlusione intestinale, viene sottoposto a intervento chirurgico presso l’ospedale di B. L’intervento è riuscito e il paziente viene ricoverato nel reparto di chirurgia per il decorso post-operatorio.
Il caso clinico
Dopo neanche un'ora dall’intervento il paziente non respira bene e presenta delle secrezioni dal naso; i genitori del signor A., allarmati, chiamano gli infermieri di turno, dottor C. e dottor D., che li rassicurano circa la normalità della situazione, rappresentando che si trattava di un normale decorso postoperatorio. Gli infermieri, senza avvicinarsi al paziente, forniscono ai genitori del sig. A. delle garze per pulire la schiuma emessa dal naso.
La situazione continua a non migliorare e il paziente inizia a perdere secrezione anche dalla bocca, oltre che dal naso; i genitori, allarmati, chiamano più volte sia gli infermieri, i quali continuano a rassicurarli e tranquillizzarli circa la normalità di questi sintomi.
Non sicuri della risposta fornita dagli infermieri, i genitori del sig. A. chiedono l’intervento del medico di guardia, che dopo aver osservato il paziente (senza visitarlo) gli inietta una fiala di Lasix intramuscolo, tranquillizzando anche lui i parenti del paziente.
La situazione, tuttavia, non migliora, tanto da rendere necessario per il medico di guardia allertare il chirurgo che ha eseguito l’intervento e procedere contestualmente all’aspirazione dei liquidi emessi dal paziente tramite un apposito macchinario; tuttavia, dopo tale intervento drastico, il respiro del paziente si fa sempre più debole, la schiuma continua ad uscire dal naso e dalla bocca e il giovane signor A. muore alle 3 di notte.
La normativa violata e la responsabilità dell’infermiere
La responsabilità penale del professionista sanitario è disciplinata dal combinato disposto degli articoli 589, 590 e 590 sexies del codice penale: se, nell'esercizio della professione sanitaria, il professionista cagiona la morte o delle lesioni al paziente, rischia una pena che va da un minimo di tre anni (pena minima per le lesioni) a cinque anni di reclusione (pena massima prevista per l'omicidio colposo, salvo particolari circostanze in cui la pena può aumentare fino a dieci anni).
L'art. 590 sexies del codice penale, introdotto dalla legge Gelli Bianco, prevede una particolare causa di giustificazione per il professionista sanitario: difatti, qualora la morte o le lesioni del paziente si siano verificati a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.
Tali principi si applicano anche all’infermiere, quale professionista sanitario obbligato al rispetto delle linee guida e delle buone pratiche clinico assistenziali per andare esente da responsabilità per la morte o le lesioni provocate al paziente.
Nello specifico, l’infermiere riveste nei confronti del paziente una posizione di garanzia nei confronti del paziente: è l’infermiere, infatti, ad avere il compito di controllare il decorso post-operatorio del paziente ricoverato in reparto, in modo tale da poter immediatamente fare intervenire, in caso di dubbio, il medico.
Naturalmente, l’infermiere non ha un’autonomia valutativa diagnostica paragonabile a quella del medico, tuttavia egli, per la professione che esercita, di tutelare la salute dei pazienti ai sensi dell’art. 32 della Costituzione, scongiurando qualunque pericolo che ne minacci l’integrità; tale obbligo di protezione perdura in capo all’infermiere per l’intera durata del turno di lavoro (così costante giurisprudenza, come ad esempio Cass. Pen. N. 39256/2019, Cass. Pen. N. 9638/2000).
Quando un paziente subisce un intervento e viene poi affidato alle cure del reparto, in gergo tecnico-giuridico si parla di cooperazione multidisciplinare, poiché varie professionalità sanitarie intervengono su di lui.
In questi casi, ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutarel’attività di chi lo ha preceduto o l’attività svolta contestualmente da un altrocollega, anche se si tratta di uno specialista in altra disciplina, né può omettere di controllare la correttezzadell’operato, ponendo – se del caso – rimedio a errorialtrui che siano evidenti, non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuniconoscenzescientifiche del professionista sanitario medio (così Cass. N. 46824/2011).
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L’esito del procedimento giudiziario
In sede di autopsia viene accertato che il signor A. è morto a causa di uno scompenso cardiaco con edema polmonare, con versamento pleurico pericardico e peritoneale: per questo aveva liquido e schiuma nei bronchi, che uscivano dal naso e dalla bocca.
Dall’esame delle prove portate in dibattimento, e nello specifico dalle consulenze mediche, dalle cartelle cliniche e dall’escussione dei testimoni, emerge che gli infermieri, nei primi 15-30-45 minuti post-operatori, hanno omesso il monitoraggio della condizione cardiaca, respiratoria e renale del paziente.
Tale condotta è stata la causa della morte del signor A., che sarebbe potuto sopravvivere se gli infermieri lo avessero monitorato costantemente: se così fosse stato, infatti, avrebbero imediatamente allertato il medico che avrebbe somministrato entro le tre ore dall’intervento del potassio, che avrebbe riportato i valori nella norma e scongiurato l’exitus.
Tre gradi di giudizio hanno ritenuto negligente la condotta omissiva degli infermieri dottor C. e dottor D. infliggendo loro la pena di giustizia e condannandoli al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili (i familiari del signor A.).