“L’iscrizione a gruppi sessisti non è un gesto isolato, ma risponde a bisogni psicologici precisi: appartenenza, riconoscimento, sfogo. Elementi che si intrecciano con fattori culturali e con dinamiche tipiche dei social network, dove il branco diventa terreno fertile per il sessismo”, spiega Francesca Schir, psicologa e psicoterapeuta, segretario del Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi (Cnop) e coordinatrice del Comitato Pari Opportunità dello stesso Consiglio, in una video-intervista.
In rete si riaffermano i modelli patriarcali
Secondo la psicologa, l’attacco alle donne non si limita a offese generiche ma assume una connotazione sessualizzata e collettiva. “A emergere sono stereotipi radicati, prassi culturali che relegano la donna a un ruolo subordinato. La rete diventa così il luogo in cui si riaffermano modelli patriarcali, dove le donne vengono percepite come minaccia a un ordine gerarchico e, per questo, bersaglio privilegiato”. Il meccanismo è rafforzato dall’effetto dell’anonimato e dalla cosiddetta “disinibizione online”: dietro lo schermo non si percepisce lo sguardo, il dolore, la reazione dell’altro. “La persona diventa un avatar, un bersaglio. L’aggressione si normalizza, persino quando viene mascherata da ironia. I like e i commenti fungono da gratificazione immediata, rinforzando l’illusione di autoefficacia e incentivando la permanenza nel gruppo”.
Cosa si può fare?
Non si tratta soltanto di psicopatologia individuale. “È un fenomeno trasversale, che riguarda uomini di diversi contesti sociali, più legato a un modello culturale interiorizzato che a disturbi clinici. Il sessismo viene legittimato come ‘goliardia’, ma è un dispositivo di denigrazione”. Cosa si può fare per arginare simili derive? “È necessario investire in educazione digitale ed emotiva, sviluppare empatia, consapevolezza e responsabilità. Ciò che scriviamo online ha effetti reali. E le vittime non devono essere lasciate sole: serve un sostegno che vada oltre la risposta legale, per contrastare quella che a tutti gli effetti è una forma di violenza digitale”.