Il signor A è affetto da una neoplasia renale, per la quale deve essere sottoposto a un intervento di nefrectomia sinistra (asportazione del rene), da eseguirsi in laparoscopia.
Durante la fase precedente alla vera e propria nefrectomia, il chirurgo operatore, dottor B, ebbe un dubbio sulla corretta individuazione dell’arteria renale da sottoporre a clampaggio per interrompere il flusso sanguigno temporaneamente e consentire l’incisione del tessuto renale.
Per sciogliere questo dubbio, il chirurgo operatore chiamò a consulto il primario del reparto, professor C, il quale confermò che l’arteria isolata dal dottor B era, effettivamente, l’arteria renale; il dottor B, pertanto, procedette con il clampaggio del vaso.
In realtà, l’arteria scelta dal dottor B e confermata dal professor C non era quella renale, bensì quella addominale, che a seguito del clampaggio subisce un’occlusione iatrogena in sede sottorenale.
Dal clampaggio dell’arteria errata è derivata una forte emorragia, a causa della quale l’intervento viene convertito da laparoscopia a intervento a cielo aperto.
L’operazione viene portata a termine con successo, con la rimozione totale del rene; il paziente, al termine dell’intervento viene perciò condotto in terapia intensiva e sottoposto a tac, dalla quale si evidenzia la chiusura dell’aorta addominale, da cui era derivata una protratta ischemia agli arti inferiori e un’estesa necrosi ischemica muscolare.
Il giorno dopo l’intervento il paziente viene trasferito in un nuovo ospedale e sottoposto a una seconda operazione di rivascolarizzazione, mediante by-pass succlavio-femorale.
L’intervento di rivascolarizzazione è stato eseguito in maniera corretta, ma non ha avuto successo in quanto tardivo, tant’è che il paziente, dopo poche ore, è spirato a causa di un’insufficienza cardiocircolatoria.
I familiari del signor A sporgono quindi denuncia nei confronti dei sanitari coinvolti nell’intervento.
L’imperizia in sala operatoria e il quadro normativo
Il reato per il quale il dottor A è stato sottoposto ad indagine è l’omicidio colposo commesso nell’esercizio della professione sanitaria, così come introdotto nel nostro ordinamento giuridico dalla legge Gelli-Bianco con l’articolo 590 sexies del codice penale.
La norma stabilisce che se il reato di omicidio colposo o di lesioni personali colpose vengono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si applicano le seguenti pene:
- reclusione dai sei mesi ai cinque anni per l'omicidio colposo,
- reclusione fino a tre mesi o multa fino a euro 309 per le lesioni personali colpose,
- reclusione da uno a sei mesi o multa da euro 123 a euro 619 se la lesione è grave,
- reclusione da tre mesi a due anni o multa da euro 309 a euro 1.239 se la lesione è gravissima.
Tuttavia, la punibilità del professionista sanitario è esclusa se la morte o le lesioni del paziente si sono verificate a causa di imperizia e sono state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida o le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni risultino adeguate alle specificità del caso concreto.
Per poter comprendere se il dottor b sia incorso o meno nella commissione del reato, il pubblico ministero durante lo svolgimento delle indagini e il Tribunale nel corso del dibattimento hanno dovuto verificare se l’errore di cui il chirurgo era accusato fosse evidente e macroscopico, tale da configurare la colpa grave e da escludere le cause di non punibilità previste dall’art. 590 sexies codice penale.
Ebbene, dall’istruttoria dibattimentale sono emersi due dati certi:
- che la causa della morte del signor A sia stata una insufficienza cardiocircolatoria terminale in sindrome da rivascolarizzazione, secondaria all'intervento di bypass succlavio bifemorale, necessariamente imposto dalla chiusura iatrogena dell'aorta sottorenale, intervenuta nel corso della nefrectomia sinistra per neoformazione (in tal senso sono pienamente convergenti sia le conclusioni dei consulenti, sia le conclusioni del collegio peritale);
- che, nel corso dell'operazione di nefrectomia, il dottor B ha scambiato l'aorta addominale per l'arteria sottorenale e che, a seguito di tale errore, sia insorta una protratta ischemia degli arti inferiori e una estesa necrosi ischemica muscolare, da cui, nonostante l'intervento di rivascolarizzazione mediante bypass succlavio-bifemorale, è derivata la morte.
Nel corso del dibattimento il consulente della Procura ha qualificato come grossolano l'errore interpretativo anatomico, in quanto l'arteria renale e l'arteria addominale sono completamente differenti, sia per il calibro (di circa 22 mm. quello dell'aorta e di circa 5 mm. quello dell'arteria renale), sia per la direzione (verticale quella dell'aorta, orizzontale quella dell'arteria renale).
In tal senso, sempre nel corso del dibattimento, si sono espressi anche i periti della parte civile (i familiari del povero signor A), che hanno ritenuto di censurare la condotta del dottor B sia in fase demolitiva, per non aver riconosciuto l'arteria renale, sia nella fase anteriore, per non avere, a fronte dei dubbi insorti in merito alla corretta individuazione dell'arteria da clampare, convertito l'intervento laparoscopico in intervento a cielo aperto, in modo da poter disporre di una completa visione del campo operatorio e facilitare il riconoscimento dei vasi.
Peraltro, dagli atti emerge che il dottor A ha addirittura descritto l’errore nella cartella clinica, in sede di verbalizzazione della seduta operatoria, dove descrive "un'arteria renale di notevole calibro e decorso atipico verticalizzato"; in sede autoptica non è stata rilevata alcuna anomalia anatomica nell’arteria renale, proprio perché il dottor A aveva clampato l’arteria addominale.
Nel corso del dibattimento è emerso che, nonostante la scelta – corretta – di chiamare a consulto il primario professor C, l’opzione più sicura per il paziente, in quelle condizioni di dubbio, sarebbe stata quella di intervenire a cielo aperto, in modo tale da individuare e manipolare facilmente il rene, individuare l’aorta attraverso l'isolamento dell'arteria iliaca comune sinistra, non coinvolta in alcun processo patologico.
Se il dottor B avesse proceduto a cielo aperto avrebbe potuto riconoscere correttamente l’arteria renale sinistra, non avrebbe clampato l’arteria sbagliata e il paziente non sarebbe deceduto.
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Le sentenze e le responsabilità accertate
Ben tre gradi di giudizio hanno confermato la responsabilità professionale del dottor B, colpevole:
- della mancata conversione dell'intervento laparoscopico in intervento a cielo aperto, a fronte del dubbio insorto sul vaso da clampare,
- di imperizia nella individuazione del vaso sanguigno,
- della mancata ricognizione del campo operatorio e della mancata verifica, una volta dominata l'emorragia, della correttezza dell'intervento, successivamente alla rimozione del rene.
Il dottor B è stato condannato a una pena inferiore ai cinque anni con sospensione condizionale della pena, oltre che al risarcimento del danno da liquidarsi in sede civile e al pagamento delle spese processuali per tre gradi di giudizio.
Accanto alle conseguenze professionali ed economiche, il professionista ricorderà per tutta la vita il suo errore, non voluto, costato la vita a un suo paziente.