La signora A, paziente affetta da obesità, è incinta del suo secondo figlio ed è in cura dal ginecologo dottor B.
Purtroppo, durante la gravidanza la donna inizia a manifestare i sintomi del diabete gestazionale, come era accaduto anche per la prima gravidanza; la donna si sottopone a visita presso il Centro Diabetologico dell’ospedale della sua città dove lavora l’endocrinologo dottor C, che la segue prescrivendole le cure del caso.
La donna, oltre che dal ginecologo e dall’endocrinologo del Centro Diabetologico, è anche costantemente seguita dal suo medico di base, il dottor D, memore anche delle problematiche diabetologiche legate alla prima gravidanza della signora A.
La donna sottovaluta molto la patologia del diabete gestazionale, tanto da disattendere spesso le raccomandazioni ricevute dai medici, in particolare dall’endocrinologo, necessarie per gestire in sicurezza l’equilibrio metabolico.
Ciononostante, la donna riesce a portare a termine la gravidanza, fino alla trentottesima settimana; tuttavia, il neonato muore dopo il parto a causa di un’insufficienza multiorgano dovuta a diffuso ritardo maturativo.
La donna sporge denuncia per malpractice medica, ritenendo che la morte del bambino sia colpa dei medici che l’hanno avuta in cura.
Cosa prevede la legge sulla responsabilità d’equipe
La responsabilità penale del medico è disciplinata dal combinato dagli articoli 589, 590 e 590 sexies del codice penale: se, nell'esercizio della professione sanitaria, il medico cagiona la morte o delle lesioni al paziente, rischia una pena che va da un minimo di tre anni (pena minima per le lesioni) a cinque anni di reclusione (pena massima prevista per l'omicidio colposo, salvo particolari circostanze in cui la pena può aumentare fino a dieci anni).
L'art. 590 sexies del codice penale, introdotto dalla legge Gelli Bianco, prevede una particolare causa di giustificazione per il professionista sanitario: difatti, qualora la morte o le lesioni del paziente si siano verificati a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.
Durante il processo il ginecologo, per andare esente da responsabilità, ha tentato di addossare, sulla base dei principi della responsabilità d’equipe, la colpa anche agli altri medici che avevano in cura la signora A, in particolare l’endocrinologo e il medico di base.
Quando si parla, in gergo giuridico, di responsabilità di equipe medica, vige il principio dell’affidamento, in virtù del quale il medico che ha in cura per primo il paziente fa affidamento sulle successive cure del professionista che lo segue (come accade, ad esempio, in ospedale con il cambio del turno) e sulla diligenza e correttezza dell’operato di quest’ultimo.
Il dottor B, secondo tale principio, affidamento sul controllo che il medico di base e l’endocrinologo del Centro diabetologico facevano sulla paziente e vigilassero anche sulla sua riluttanza a seguire le indicazioni terapeutiche.
Bisogna osservare, però, che la successione nelle cure prestate alla paziente, quasi in contemporanea, dal ginecologo dottor B, dall’endocrinologo dottor C e dal medico di base dottor D non può rientrare nell’ipotesi di lavoro in equipe, a meno che tra i suddetti medici non vi siano stati dei contatti diretti nel corso delle cure prestate alla paziente.
Se così fosse, si creerebbe un’interdipendenza dell’azione dell’un medico nei confronti di quella compiuta dall’altro medico; altrimenti, si tratta di singole prestazioni sanitarie, scollegate tra loro, non sussumibili nel concetto di equipe e – soprattutto – non rientranti nel principio dell’affidamento.
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Le decisioni dei giudici e l’esito del caso
Durante il dibattimento è emerso che la condotta dell’endocrinologo, che aveva in cura la signora A, era completamente scollegata da quella del ginecologo e del medico di base, perciò non si poteva in alcun modo configurare una responsabilità d’equipe.
L’endocrinologo, inoltre, aveva operato secondo scienza e coscienza, seguendo le linee guida e le buone pratiche in materia; egli, pur consapevole della scelta della paziente di disattendere gran parte delle cure prescritte, non poteva obbligarla a seguirle, in assenza di un trattamento sanitario obbligatorio, in virtù del disposto dell’articolo 32 della nostra Costituzione, che stabilisce il principio per cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
Due gradi di giudizio ritengono, invece, il ginecologo dottor B responsabile della morte del figlioletto della signora A, in quanto per colpa ha omesso di diagnosticare e curare il diabete gestazionale della paziente, da cui derivava la morte del bambino, trascurando il fatto che la paziente era obesa, aveva avuto la stessa patologia nella precedente gravidanza, già al primo controllo mostrava un valore glicemico sopra soglia, omettendo così di prescriverle esami necessari (come ad esempio curva glicemica, esami ematochimici, emoglobina glicata e controlli periodici per il diabete) e altresì i controlli ostetrici.
Ciononostante, tra la morte del bambino e la sentenza della Corte di Cassazione è passato troppo tempo, oltre dieci anni, e il medico è andato completamente esente da ogni responsabilità perché il reato si è prescritto.