Psichiatra e responsabilità: il dovere di proteggere il paziente da sé stesso

La cura dei pazienti psichiatrici è estremamente delicata: sullo psichiatra grava il dovere di proteggere il paziente da sé stesso e di proteggere gli altri da eventuali danni che il paziente potrebbe arrecare. Ogni situazione è a sé stante, e richiede estrema attenzione, pena la condanna per lesioni o omicidio colposo.

Sommario

  1. Il caso clinico e giudiziario
  2. La normativa violata
  3. La decisione dei giudici

Il signor A. è affetto da schizofrenia paranoide cronica con episodi psicotici acuti, per i quali negli anni ha subito ben tredici ricoveri ospedalieri connessi alla patologia. 

Nel corso dell’ultimo ricovero il signor A. era stato seguito dal dottor B, che gli aveva somministrato delle cure farmacologiche da eseguire a casa. 

Una mattina il signor A si presenta presso il Servizio Psichiatrico diagnosi e cura dell’Ospedale di C., accompagnato da sua moglie, la quale spiegava al dottor B che il paziente aveva ingerito un intero flacone di Aloperidolo. 

Il caso clinico e giudiziario

Il dottor B visita il paziente, che si presenta tranquillo e con gli occhi aperti; dato che non manifestava i sintomi tipici di un’assunzione massiccia di Aloperidolo, il dottor B congedava il signor A. e la moglie, consigliando a quest’ultima di non somministrare null’altro nel corso della giornata, dicendogli di richiamarlo la mattina dopo per “vedere come va”. 

Tornati a casa, il signor A si buttava sul letto e si addormentava; la moglie, tranquillizzata dalle parole del dottor B, usciva per una mezz’oretta per fare un po’ di spesa e cucinare qualcosa di buono per il marito, in modo da scacciare via questo brutto inizio di giornata. Tuttavia, al suo ritorno, trova davanti casa le forze dell’ordine e tantissima gente: il marito si è suicidato buttandosi dal balcone. 

La donna non si dà pace, perché il suicidio è avvenuto, sostanzialmente, poco più di un’ora dopo che lei e il marito si erano recati in ospedale; decide, perciò, di denunciare il dottor B per colpa medica, perché secondo lei il medico avrebbe dovuto ricoverare il marito. 

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La normativa violata

La giurisprudenza, da oramai più di vent’anni, descrive la responsabilità del medico psichiatra come quella da rischio consentito. 

Secondo la Cassazione (sentenza n. 4391/2011) la cura del paziente psichiatrico, dopo l’abbandono delle pratiche di isolamento e segregazione in manicomio, avviene con terapie che rispettano la dignità della persona; queste terapie, tuttavia, non sono in grado di eliminare completamente il potenziale pericolo di attuazione, da parte del paziente, di gesti inconsulti, come ad esempio un tentativo di suicidio. 

Il rischio connesso alla gestione di un paziente psichiatrico è un rischio che non viene mai meno, ma è accettato sia dalla medicina che dalla società, come tale si definisce “rischio consentito”. 

Lo psichiatra, quale medico specializzato in patologie connesse alla mente, ha sostanzialmente un obbligo di controllo sul paziente, rispetto al quale funge da garante, con il dovere di neutralizzare gli effetti lesivi che i comportamenti del paziente potrebbero avere sia verso sé stesso che verso terzi; il paziente viene equiparato, di fatto, a un pericolo dalla prevalente giurisprudenza in materia. 

Lo psichiatra, perciò, ha un doppio obbligo: 

- Di protezione del paziente da sé stesso, 

- Di controllo del paziente, i cui comportamenti non devono avere effetti negativi su terzi. 

Le regole cautelari che lo psichiatra deve rispettare, di fatto, sono parametrate ai due obblighi di cui sopra e alla condizione patologica specifica del paziente sotto cura. 

Le linee guida possono offrire allo psichiatra indicazioni e punti di riferimento sulle scelte terapeutiche da effettuare, che però variano da paziente a paziente in quanto ogni situazione è differente.

La decisione dei giudici

Tre gradi di giudizio sanciscono definitivamente la colpevolezza del dottor B per la morte del suo paziente, per avere, di fatto, sottovalutato i sintomi e avere omesso condotte che, da psichiatra, erano doverose per evitare che il paziente arrecasse nocumento a sé stesso. 

Pur essendo vero che l’aloperidolo non aumenta di per sé il rischio di suicidio, il dottor B la mattina in pronto soccorso non ha creduto alla moglie del paziente, sol perché il marito non presentava immediatamente i sintomi da intossicazione. 

Il dottor B, però, avrebbe dovuto sottoporre a ricovero in osservazione il signor A, poiché è noto in scienza medica che l’intossicazione da questo tipo di farmaco varia in ragione della diversa sensibilità individuale e comunque raggiunge dei livelli di picco nel sangue almeno due ore dopo l’assunzione. 

La doverosità del ricovero deriva anche dalla particolare storia clinica del paziente, che aveva subito, nel corso della sua vita, ben tredici ricoveri per la sua patologia psichiatrica. 

In pratica, se il dottor B avesse ricoverato il signor A e lo avesse tenuto sotto osservazione per poche ore, si sarebbe avveduto del manifestarsi dei sintomi suicidiari e ne avrebbe scongiurato le conseguenze, rendendosi così colpevole del reato di omicidio colposo (all’epoca dei fatti non era ancora stata introdotta la riforma penale della Legge Gelli-Bianco). 

Il dottor B viene condannato alla pena di quattro mesi di reclusione e al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili (moglie e figli del paziente) per il reato di omicidio colposo; il dottor B non ha mai varcato il carcere perché la pena, essendo troppo bassa, è stata sospesa, ma la sua fedina penale rimane “sporca” in virtù di questa condanna. 

 

Di: Manuela Calautti, avvocato

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