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Emergenza Covid e attività svolte al di fuori delle competenze abituali: quali responsabilità per le professioni sanitarie e quali impatti sulle coperture assicurative?

30/12/2020

Emergenza Covid e attività svolte al di fuori delle competenze abituali: quali responsabilità per le professioni sanitarie e quali impatti sulle coperture assicurative?

Di Maurizio Hazan e Daniela Zorzit – Consulenti SanitAssicura

L’emergenza pandemica, a tutt’oggi difficile a governarsi (e ancor prima a comprendersi in tutte le sue coordinate), ha rivelato bruscamente la precarietà degli ordinari assetti della nostra organizzazione sanitaria nel far fronte alla violenza del virus.

Al di là dei temi, delicatissimi, relativi al “se” e al “che cosa” si sarebbe potuto fare per arginare meglio il fenomeno (specie nella seconda ondata dei contagi, che ha riportato “a nuovo” problemi già vissuti all’inizio della pandemia), la gestione dell’emergenza ha condotto all’adozione di strategie o azioni di contrasto del tutto straordinarie ed eccentriche rispetto a regole esperienziali consolidate.

In questo contesto anche il sistema di responsabilità civile disegnato dalla legge 24/2017 (cd legge Gelli) – fondato sull’individuazione di “linee guida” quali parametri a cui ragguagliare l’agire diligente – mostra i suoi limiti: quali linee guida possono in concreto individuarsi nella gestione di un virus che continua ad anticipare i “tempi di gioco”?

La questione assume particolare consistenza di fronte ad un problema del tutto nuovo ed emerso proprio durante questa emergenza pandemica: quello della carenza di specialisti (es. rianimatori, pneumologi ecc.), per far fronte alla quale taluni ospedali sono stati costretti a “convertire” non solo i reparti, ma anche, si passi il termine, “il personale”: capita infatti che medici di altre branche (es. traumatologi, ginecologi , ortopedici ecc.) vengano “applicati” a settori ed incombenze “Covid”, al fine di garantire comunque la funzionalità dei presidi dedicati ed accogliere la mole dei pazienti che chiedono assistenza.

Il malcontento dei medici di altre specialità impiegati in reparti “Covid”

Qui si apre un fronte molto delicato, nel quale si annidano, ed anzi stanno già germogliando, i semi di un certo malessere: gli esercenti la professione sanitaria sono preoccupati, stanchi, delusi e risentiti perché percepiscono questa nuova ondata come -prevedibile – effetto rebound di quello che qualcuno ha definito un atteggiamento sostanzialmente inerte e attendista di chi avrebbe dovuto attivarsi per tempo per scongiurare il ripetersi di scenari già visti. E sono angustiati; non solo per via della fatica fisica e psicologica, ma anche perché temono di essere, un domani, coinvolti e trascinati in lunghissimi procedimenti giudiziari e costretti a difendersi da addebiti che, in ogni caso, sentono di non meritare.

In questo clima si stanno allora rafforzando quelle tensioni che spingono i medici ad alzare un barrage contro le strutture, e così per esempio a manifestare qualche resistenza di fronte alle decisioni “imposte dall’alto”, come ad es. gli ordini di servizio con cui appunto si chiede di prestare l’attività di cura in ambiti diversi da quelli della propria specializzazione. E tale “malumore” trova la sua ragione nella paura di dover rendere conto, davanti ad un Tribunale, delle proprie azioni, che potrebbero non essere “adeguate” in contesti appunto eccentrici rispetto a quelli entro cui si esplica normalmente la loro competenza.

Ma non solo: svolgendo attività diverse e magari distante da quelle loro proprie, i medici potrebbero andare incontro ad eccezioni di non operatività delle loro coperture assicurative, in quanto stipulate per garantire un rischio diverso da quello correlato alle differenti attività svolte in emergenza e al di fuori delle loro competenze tipiche.

La questione non è certo risolvibile in poche battute, ma proveremo ad abbozzare alcune prime risposte.

Profili di potenziale responsabilità del medico che opera “fuori ruolo”

Muoviamo dalle questioni relative ai profili di potenziale responsabilità derivante da attività svolte “fuori ruolo”.
Alla domanda se a tali professionisti possano essere mossi addebiti in caso di errore si dovrebbe poter rispondere con l’art. 2236 cc. e con una valutazione della colpa (grave) che tenga appunto conto della differente area a cui essi sono applicati in concreto. Il medico che si trovi ad operare in emergenza, “e quindi in quella temperie intossicata dall’impellenza che rende quasi sempre difficili anche le cose facili” (sentenza del 10.06.2014 n. 24528, Cass. pen. est. Blaiotta) ben dovrebbe potersi avvalere dello statuto protettivo di cui all’art. 2236 c.c.. e dunque rispondere solo in caso di colpa grave, a maggior ragione nelle ipotesi in cui gli sia stato richiesto di svolgere attività eccentriche rispetto alle proprie competenze: attività che per loro natura dovrebbero potersi intendere, nella maggior parte dei casi, di “particolare difficoltà” rispetto a quelle normalmente correlate alle specializzazioni elettive.

La responsabilità verso il paziente vs la responsabilità verso la struttura

La questione, peraltro, merita di esser ulteriormente indagata separando i due fronti delle possibili responsabilità mediche/professionali: quello della responsabilità “esterna” e diretta verso il paziente (in relazione alla quale valgano le considerazioni sopra svolte) e quello delle responsabilità “interne” verso la struttura, laddove questa agisca in rivalsa. In quest’ultimo caso vale la disciplina di cui all’art. 9 della legge “Gelli”, che di per sé limita qualitativamente e quantitativamente il rischio di esposizione dei cosiddetti “professionisti strutturati”, circoscrivendo il diritto di regresso della struttura alle sole ipotesi di dolo o colpa grave (oltre al tetto pari al triplo della retribuzione).

Tale colpa grave, anche nel rapporto interno, dovrà essere apprezzata con ancor maggior cautela, tenendo conto delle speciali difficoltà di un incarico svolto al di fuori del terreno professionale di elezione e, per di più, per ordine della struttura. Il tutto senza omettere di ricordare come nell’eventuale (e, a nostro parere, per nulla scontata) ipotesi di accoglimento dell’azione di rivalsa, la quantificazione del danno dovrà essere effettuata tenendo conto delle “situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura” presso la quale l’esercente ha operato.

Principio questo che, pur dettato dall’art. 9 per il comparto pubblico potrebbe essere ragionevolmente invocato in tutti i contesti emergenziali, anche privatistici.

Il medico può rifiutare di assumere un incarico che non è compatibile con le sue competenze?

Vi è poi da chiedersi se ed entro quali limiti sia possibile “rifiutarsi” di assecondare le scelte aziendali di “riconversione”, specie a fronte di quell’obbligo, posto a carico di tutto il “personale” e previsto dall’art. 1 L. 24, di “concorrere alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie”. Il principio di fondo dovrebbe essere improntato a solidarietà e non a divisione; d’altro canto però non può trascurarsi l’esigenza di salvaguardare quello che potremmo definire il requisito di base, cioè la necessità di un “minimo di compatibilità” tra le “abilità” del medico destinato ad altro settore con quelle oggettivamente richieste dal tipo di prestazione che è chiamato ad assolvere.

Le coperture assicurative per chi è chiamato ad operare fuori ruolo

Come noto, gli esercenti “strutturati” (e dunque anche quelli applicati “fuori” ruolo durante l’emergenza) sono assoggettati ad un doppio obbligo assicurativo: quello relativo al rischio della responsabilità civile verso terzi, di cui all’art. 10 comma 1 della legge Gelli, e quello a copertura del rischio “interno” di rivalsa di cui all’art. 10 comma 3.

Il primo dei due deve essere assolto dalla struttura per la quale operano, anche attraverso sistemi di autoritenzione del rischio.
Il secondo obbligo è invece posto a carico del singolo esercente della cui responsabilità si discorre.

Pur in mancanza dei decreti attuativi, che dovrebbero disciplinare le coordinate minime di tali coperture, il mercato delle polizze individuali dei medici conosce una certa diffusione. E si pone dunque la necessità di comprendere se e in che termini l’adibizione a mansioni diverse da quelle dichiarate all’atto della stipula del contratto assicurativo possa impattare sull’operatività delle garanzie.

Si potrebbe, invero, ritenere che lo spostamento su attività eccentriche rispetto a quelle normalmente esercitate comporti un aggravamento del rischio inizialmente dichiarato in polizza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1898 c.c.. In base a tale norma la compagnia potrebbe recedere dal contratto e financo non corrispondere alcun indennizzo, laddove il sinistro si fosse verificato prima della scadenza del termine previsto dalla disposizione per formalizzare il recesso. Perché di aggravamento del rischio si possa parlare occorre tuttavia che la variazione peggiorativa sia connotata da una certa stabilità, e non sia invece soltanto occasionale: il che naturalmente va verificato caso per caso, anche in relazione alla durata del contratto assicurativo. Il fatto poi che la responsabilità dell’esercente possa non essere affatto implicata in concreto, per le ragioni di cui si è detto in precedenza, non è argomento di per sé utile a sostenere che il rischio, in realtà, non si sia aggravato: il rischio di errori è certamente più marcato nell’ambito di territori professionali meno esplorati rispetto a quelli normalmente praticati; e quand’anche l’eccezionalità del caso escludesse una responsabilità, il solo aumento del rischio di contenzioso potrebbe implicare l’ipotesi di aggravamento prevista dal legislatore (non foss’altro per il fatto che le coperture di responsabilità coprono anche le spese di resistenza).

A prescindere da quanto sopra, le polizze assicurative degli esercenti sovente prevengono il problema, prevedendo espressamente che l’operatività della garanzia sia espressamente limitata ai soli fatti colposi commessi nell’esercizio dell’attività professionale dichiarata in sede di stipula del contratto.
Una tale previsione contrattuale – usuale e comune – rischia di privare di efficacia le garanzie per tutte le richieste risarcitorie che venissero presentate all’assicurato in relazione a danni dallo stesso procurati mentre era adibito ad attività diverse da quelle indicate in contratto.

Si tratta di un aspetto estremamente delicato, dal momento che la scopertura assicurativa dipenderebbe non da una scelta volontaria dell’esercente, ma dal rispetto, da parte sua, di una decisione della struttura. Il che potrebbe indurre a sostenere che una tale situazione non rientri nell’ambito di applicazione razionale della clausola di esclusione che, almeno secondo una interpretazione di buona fede, sembrerebbe diretta ad escludere la garanzia di fronte a scelte unilaterali dell’assicurato; non invece per effetto dell’adempimento di ordini di servizio impostigli anche – e soprattutto – a tutela del pubblico interesse.

D’altra parte, se l’esercente, per effetto di una decisione della struttura (di applicarlo fuori ruolo), si trovasse scoperto davanti a richieste risarcitorie rivolte contro di lui da terzi danneggiati…ebbene, sarebbe la struttura medesima a doverlo comunque tenere indenne, per non venir meno all’obbligo impostole ex lege (e comunque dalla contrattazione collettiva) di provvedere alla copertura del suo rischio di responsabilità verso terzi.

Più delicato il caso dell’assicurazione obbligatoria del rischio di rivalsa in caso di colpa grave: qui un’interpretazione rigorosa, e non razionale o di buona fede, della clausola di esclusione potrebbe davvero pregiudicare l’operatività della garanzia. Ma riteniamo che gli addebiti di colpa grave costituiscano, nella casistica in esame, un’eventualità difficilmente configurabile in concreto, mentre un’azione di rivalsa da parte della struttura, erariale o privatistica, fondata su errori commessi “fuori ruolo”, potrebbe scontare una certa temerarietà se promossa al di fuori di ipotesi di colpa davvero macroscopica.

Va infine osservato come, forse proprio in base a tutte le considerazioni sin qui svolte, il mercato assicurativo ha fino ad oggi fatto registrare un atteggiamento prudente o forse meglio rassicurante, a tutela dei propri assicurati. E così, per quanto la casistica sia ancora povera, molte delle principali compagnie hanno dichiarato di non volersi avvalere, nei casi oggetto della nostra analisi, dell’esclusione di polizza.

Si tratta di una scelta eticamente condivisibile, al di là delle tematiche interpretative di cui abbiamo fatto cenno. Una scelta che, in ogni caso, si pone nella direzione auspicata dall’autorità di Vigilanza assicurativa Europea (EIOPA), che ha fortemente caldeggiato, nei limiti del possibile, l’adozione, da parte delle compagnie assicurative di politiche di sostegno della propria clientela in tempo di Covid.

Insomma, e in conclusione, l’adibizione a mansioni extravaganti rispetto alle competenze professionali elettive, seppur dettate da superiori esigenze di pubblico interesse, comporta una serie di potenziali ricadute critiche, sia sotto il profilo delle correlate responsabilità civili, sia per quel che attiene ai profili assicurativi.

In concreto, tuttavia, gli effettivi spazi per affermare autentiche responsabilità risarcitorie in capo ai medici applicati a mansioni diverse nonché per sostenere la non operatività delle loro garanzie assicurative (di RCT e da rivalsa), sembrano piuttosto risicati.


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