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Aumentare la ricerca sull’uso dei farmaci in gravidanza per ridurre i rischi – Editoriale di Virginia Rasi

08/05/2021

Aumentare la ricerca sull’uso dei farmaci in gravidanza per ridurre i rischi – Editoriale di Virginia Rasi

Editoriale di Virginia Rasi, medico, assistente ricercatore presso University College of London (UCL)

 


Secondo recenti stime, l’uso di farmaci in gravidanza ha subìto un importante aumento negli ultimi anni.

Circa il 50-70% di donne riferisce infatti di aver fatto uso di almeno un farmaco durante la gravidanza, soprattutto durante il primo trimestre, il momento forse più delicato nella formazione e sviluppo del bambino, l’organogenesi.

Si stima, inoltre che circa la metà delle gravidanze non sia programmata. Questi dati ci dicono due cose: primo, che una donna assume almeno un farmaco durante la sua gravidanza, sia per un evento acuto e transitorio (allergia stagionale, influenza o una comune infezione delle vie urinarie) sia per condizioni croniche preesistenti (epilessia, ipertensione o diabete); secondo, che un 50% di esse lo avrà fatto quando era inconsapevole del proprio stato di gravidanza.

In entrambi i casi l’uso materno di medicinali espone il nascituro ad un potenziale rischio di effetti tossici e teratogenici, soprattutto quando l’esposizione avviene durante il primo trimestre.

Eppure, se si prende un qualunque foglietto illustrativo di un qualunque medicinale, per la stragrande maggioranza di essi, specie per quelli di più recente approvazione, non si leggono chiare raccomandazioni per il loro uso in gravidanza o in allattamento. Questo perché nella stragrande maggioranza dei casi, i farmaci in sperimentazione non sono testati su donne in gravidanza o in allattamento. Di fatto, lo stato di gravidanza rimane ad oggi il più comune criterio di esclusione dai trials clinici o di allontanamento da essi, qualora si rimanga incinta mentre si partecipa al trial.

Tralasciando i dilemmi etico-morali sulla inclusione/esclusione di questa popolazione nel clinical trials; la totale esclusione delle donne in gravidanza, in realtà, genera un grossissimo gap di conoscenze sulla reale sicurezza ed efficacia dei farmaci. Questo, per il medico, costituisce un grosso grattacapo quando prescrive un farmaco in gravidanza, perché rimane da solo a dover valutare il beneficio contro il rischio, senza avere solidi dati scientifici. Di fatto, l’informazione e i dati scientifici su questa popolazione provengono per la stragrande maggioranza dei casi dall’esperienza nel modo reale, generata e accumulata nel tempo.

Di conseguenza, molto spesso, gli effetti tossici o teratogenici o di ridotta efficacia dei farmaci utilizzati in gravidanza vengono rilevati dopo anni di uso nel mondo reale. Escludere donne in gravidanza dalla ricerca non fa altro che perpetuare il rischio, esporle a dosaggi inappropriati, e perpetuare il rischio anche per il nascituro agli effetti potenzialmente tossici o teratogenici. Pertanto, escludere donne in gravidanza dalla ricerca non rimuove il rischio, semplicemente lo sposta da un contesto estremamente ben controllato, con intenso monitoring e consenso informato, come avviene nei trials clinici, ad un contesto molto meno controllato, come avviene nell’ambiente ospedaliero/ambulatoriale.
Il che, in conclusione, porta ad un vero e proprio uso “off-label” della stragrande maggioranza dei farmaci usati in gravidanza.